Il mercato del lavoro italiano ha raggiunto l’ennesimo record: ventitré milioni e settecento cinquantaquattromila persone di occupati a fine 2023. Sono quasi due milioni in più rispetto a dieci anni fa. E non c’è stato alcun boom demografico. È salito moltissimo anche il tasso di occupazione, ovvero la percentuale di lavoratori sul totale della popolazione, raggiungendo il 61,9 per cento, il 6,9 per cento in più rispetto alla fine del 2013. Eppure non abbiamo assistito neanche a un boom economico. Prima del Covid l’Italia aveva continuato a crescere meno dei vicini europei,. Poi, tra forti riprese e recenti frenate, non ha avuto performance più brillanti di quelle degli altri membri della Unione europea.
Se invece di guardare il prodotto interno lordo ci concentrassimo sui redditi disponibili reali, che riguardano in modo più diretto le famiglie, potremmo osservare il declino relativo del nostro Paese e dei portafogli degli italiani. In sostanza al netto dell’inflazione le risorse che abbiamo a disposizione da spendere sono all’incirca le stesse che avevamo all’inizio dello scorso decennio, mentre nella Ue mediamente sono cresciute dell’11,11 per cento. Neanche in Spagna il divario dalla media comunitaria è stato così ampio.
Negli ultimi anni l’Italia non ha fatto sempre peggio dell’Unione europeaa, in alcuni trimestri il reddito disponibile è cresciuto più della media, ma ciò è avvenuto a spese del risparmio, ovvero in coincidenza con un peggioramento ulteriore del divario tra il tasso di risparmio italiano e quello Ue. Nel terzo trimestre 2023 il nostro era dell’8,75 per cento, contro il 13,05 per cento europeo.
Il problema è la coincidenza tra i record del mercato del lavoro e l’andamento deludente dei redditi, associato a quello negativo dei risparmi. Un cambiamento epocale, perché smentisce un dato assodato non solo per gli economisti, ma soprattutto per la popolazione: più persone lavorano, più crescono i redditi e quindi i consumi.
Fino a pochissimo tempo fa è stato così: con la crisi del 2008/09 e del 2011/13 a una riduzione dei redditi ne era corrisposta una dell’occupazione, e viceversa. Durante la ripresa successiva, tra 2013 e 2020, l’incremento di un indicatore era stato parallelo all’altro, anche se già prima del Covid erano stati raggiunti livelli occupazionali più alti di quelli toccati in anni precedenti caratterizzati da redditi simili. Ma dopo la pandemia c’è stata una svolta: nel 2022 e 2023 c’è stato un disallineamento totale tra mercato del lavoro e redditi, con il boom del primo e il ristagno del secondo.
Come mai? Come sempre sono tanti i fenomeni che si incrociano. Un aspetto riguarda l’età. È cresciuto il lavoro, sì, ma di chi? Se considerassimo solo i tassi di occupazione di coloro che sono all’inizio della carriera, tra i venticinque e i trentaquattro anni, quando si sta formando una famiglia e c’è necessità di consumare, in realtà si rivedrebbe una certa correlazione con i redditi. Questi ultimi non sono ancora tornati ai livelli precedenti alla grande crisi del 2008/09, e allo stesso modo non l’ha fatto neanche la percentuale di lavoratori sulla popolazione giovane, che è al 68,2 per cento (dati del terzo trimestre 2023), contro il 70,6 per cento di inizio 2008.
I redditi non aumentano come l’occupazione anche perché il lavoro non è cresciuto per tutti allo stesso modo. Nel caso dei giovani è cresciuto meno. Oggi non ci sono più trentenni occupati dei tempi in cui le tasche erano piene, né in valore assoluto, a causa della crisi demografica, né in termini relativi. Finché il numero e la quota di giovani lavoratori, quelli che consumano di più, rimarranno basse rispetto al passato e rispetto a quello che accade in altri Paesi europei, i redditi, come il Pil, non potranno tornare quelli di un tempo. Nonostante i tanti cinquantenni in più con uno stipendio i risparmi sono diminuiti lo stesso.
C’è anche un tema di retribuzioni, che riguarda sia i giovani che chi giovane non lo è più. L’Istat ci dice che sono tantissimi i contratti collettivi scaduti: nei servizi privati, quelli che raccolgono gran parte dei lavoratori, sono il sessantatré per cento quelli in attesa di rinnovo, se consideriamo il monte retributivo. Negli ultimi due anni e mezzo l’inflazione è cresciuta di più delle retribuzioni contrattuali, anche considerando solo quella di fondo. Se poi guardiamo all’aumento dei prezzi dei beni e servizi ad alta frequenza di acquisto, cibo, bevande, trasporti, affitti, carburanti, ristorazione, l’inflazione aveva superato gli stipendi in diverse occasioni anche prima del Covid.
Nel settore dei servizi il lavoro è cresciuto di più, ma è anche pagato meno e in cui sono assunti moltissimi giovani dopo gli studi. Nonostante la frenata dei prezzi, anche a fine 2023, l’inflazione ad alta frequenza di acquisto risultava ancora essere superiore all’aumento dei salari, +4,4 contro +2,4 per cento. L’enorme divario tra i prezzi e gli stipendi degli ultimi anni non sarà colmato ancora per tantissimo tempo, visto che secondo l’Istat le retribuzioni contrattuali private saliranno solo dell’1,9 per cento nel 2024
Pochi giovani al lavoro, nonostante i miglioramenti degli indici, working poor in aumento a causa dell’inflazione, ecco alcuni dei motivi per cui l’occupazione non si traduce in redditi. È in corso in un certo senso una sorta di democratizzazione: ci sono più lavoratori, anche se pagati poco, donne, cinquantenni, sessantenni, che una volta rimanevano ai margini del mercato. È un modello in contrasto con quello «pochi ma buoni» degli scorsi decenni, quando lavoravano e guadagnavano relativamente bene in pochi, che poi distribuivano redditi e consumi tramite trasferimenti familiari. Oggi sono i consumi aggiuntivi dei nuovi occupati, gli ex outsider, che compensano quelli più bassi degli insider, coloro che il lavoro l’avevano già e stanno perdendo potere d’acquisto.
Se vogliamo vedere il bicchiere mezzo pieno possiamo consolarci un po’ con questa visione che nasconde il solito male italiano, la bassa produttività, che provoca un gran bisogno di lavoratori che però non possono essere ben pagati. Se ci si pensa, poi, come capita molto spesso il legame è biunivoco. Non è solo un certo tipo di occupazione a provocare una stagnazione dei redditi, ma è anche quest’ultima a spingere a un aumento del numero di lavoratori.
Succede quando quello che una volta era chiamato il capofamiglia ha un potere d’acquisto calante e non può sostenere tutto il nucleo familiare da solo, e quando i patrimoni diminuiscono. Come è accaduto spesso in Italia, dove negli ultimi anni, in controtendenza con quanto accadeva altrove, la ricchezza pro capite è rimasta stagnante, crescendo solo di tredicimila cinquecento euro in dieci anni, quindi meno dell’inflazione. Oggi a differenza dei primi anni del secolo, ma anche dello scorso decennio, abbiamo patrimoni più piccoli dei tedeschi, dei francesi, degli inglesi. La famosa e celebrata ricchezza privata degli italiani, usata strumentalmente per rintuzzare le critiche per il nostro indebitamento elevato, è ormai un mito. Anche per questo motivo in fondo qualcuno si è messo a lavorare. Le rendite rendono meno, sempre che non si possieda un immobile a Milano, come però solo pochi fortunati possono vantare. Il vero tema è se anche un altro mito, molto più importante, quello della classe media lavoratrice, con i suoi consumi, sia destinato a finire.