Cosa hai fatto oggi a scuola?L’educazione deve offrire gli strumenti per una società più egualitaria e inclusiva

In “Fare la differenza” (Il Mulino), Rossella Ghigi fa il punto sul ruolo della scuola nel trattare le tematiche di genere e su come potremmo affrontarle in quanto genitori, educatori o semplici adulti per una convivenza democratica e civile

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«Cosa hai fatto oggi a scuola?», chiedono i genitori ad Andrea. Abbiamo parlato del razzismo! La maestra ci ha raccontato la storia della schiavitù, del colonialismo e della discriminazione. Ci ha spiegato che per molto tempo si è dato fondamento scientifico alla razza, dicendo che divideva le persone in gruppi diversi non solo per i tratti del corpo, ma anche per indole o intelligenza, e che questo ha giustificato il fatto che le persone nere dovevano frequentare scuole diverse, non avevano gli stessi diritti e svolgevano lavori diversi da quelle bianche.

Abbiamo parlato di come le persone con la pelle nera venivano rappresentate nei film e nei romanzi, del fatto che ancora oggi fanno fatica ad arrivare ai ruoli di potere e svolgono i lavori meno pagati; del fatto che molti pensano di non essere razzisti, ma poi a volte hanno stereotipi verso le persone con una pelle di colore diverso dal loro o pensano che siano più portate a fare delle cose (tipo ballare se sono nere). Poi ci siamo confrontati su cosa vuol dire per noi vivere in una società con persone di origine diversa e del modo giusto di nominare la differenza, della crescente varietà delle famiglie in relazione al colore della pelle dei due genitori: a volte è lo stesso, a volte è diverso tra loro, ma se c’è amore sono tutte comunque famiglie. E infine abbiamo parlato di cosa possiamo fare noi nel nostro quotidiano per lottare contro il razzismo, che ancora fa sì che nascere neri e non bianchi porti, a parità di altre condizioni, ad essere svantaggiati.

Immaginiamo a questo punto i due genitori di Andrea alzarsi allarmati a questo racconto e scrivere una lettera alla scuola, protestando per il fatto che questo tipo di intervento educativo non sia stato concordato con loro. Non sono d’accordo con tutta questa enfasi sulla storicità delle classificazioni: «Questa idea non porterà nostro figlio a domandarsi cosa è lui, disorientandolo?»; «E questa equiparazione delle famiglie miste con quelle tradizionali non finirà per minare le basi antropologiche della società?». Concludono così che la scuola non debba interferire con l’educazione che loro vogliono dare ad Andrea: pensano che il corpo ci definisca e conti, e che ribadire che la razza sia un costrutto sociale faccia perdere di vista le specificità di ciascun gruppo. In ogni caso, vogliono che Andrea sia educato su questi temi solo in famiglia e a modo loro.

È difficile immaginare che il comportamento di questi due genitori possa incontrare molto favore. È generalmente riconosciuto, dalle leggi ma anche dal senso comune, che la scuola debba essere il presidio dei principi democratici e uno strumento per applicare quanto la nostra Costituzione afferma: rimuovere gli ostacoli alla libertà, all’eguaglianza e al pieno sviluppo della persona. È dunque facilmente riconoscibile la coerenza tra il perseguimento di questi obiettivi e una lezione sulla razza come forma di categorizzazione sociale degli individui che, a partire da alcune caratteristiche dei loro corpi, ha storicamente permesso (e permette ancora) ad alcuni di avere un vantaggio sociale su altri.

Proviamo ora a rileggere questo racconto sostituendo la razza con il genere e il razzismo con il sessismo. Tutto appare immediatamente sotto un’altra luce, e non solo perché gli studi genetici hanno chiarito che la distinzione tra razze è priva di fondamento scientifico a differenza di quella tra sessi. Diventa anche meno scontato che una lezione sulla disuguaglianza di genere, su come essa sia storicamente e quotidianamente riprodotta e giustificata con la differenza biologica, venga letta nei termini di una educazione ai principi democratici che la scuola dovrebbe trasmettere. Anzi. Esiste oggi un diffuso allarme intorno al fatto che su questi temi la famiglia possa perdere esclusività educativa, e che gruppi di potere stiano imponendo un «pensiero unico» che vuole negare il dato biologico e con esso le specificità di ogni gruppo sociale. In alcuni casi, si afferma, il rischio è di creare confusione o, peggio ancora, di suggerire una visione consumistica o volontaristica delle identità, come qualcosa che si sceglie (o si compra) con leggerezza.

Questi timori intercettano certamente una riflessività profonda che gli adulti oggi hanno sui propri compiti educativi. Nell’adesione teorica a un modello di crescita basata sulla libera espressione del proprio sé, essi si trovano spesso disorientati rispetto al ruolo di guida nella odierna complessità degli stimoli. Dagli adolescenti transgender alle famiglie arcobaleno, dalla sessualizzazione precoce alla crisi della maschilità, oggi relazionarsi a temi come identità, ruolo di genere e sessualità con bambini e adolescenti significa entrare in un terreno minato pieno di dubbi e paure. Posso comprare una bambola a Giovanni? Che devo dire se Giulio si mette lo smalto quando va a scuola? Come rispondere alle domande di Sofia su quella cantante con la barba o sul suo compagno di banco Milo che ha due papà? Se la scuola prova a dare strumenti per evitare che Giovanni o Giulio siano presi in giro o emarginati, che Milo si senta escluso, che Sofia rimanga senza risposte, viene subito chiamata in causa la cosiddetta «ideologia del gender». Ma cos’è esattamente il gender? È giusto che la scuola se ne occupi (e se sì, come deve farlo)? E come ci dobbiamo relazionare ai temi di genere in quanto genitori o semplici adulti? […]

Rielaborando la proposta di un classico testo degli anni Settanta, La condizione della donna di Juliet Mitchell, la sociologa Raewyn Connell ha proposto di analizzare la disuguaglianza tra uomini e donne secondo quattro dimensioni. La prima, quella della produzione, del consumo e dell’accumulazione, che comprende la divisione sessuale del lavoro, la segregazione occupazionale, la discriminazione, i vari soffitti e labirinti di cristallo che separano uomini e donne lungo assi verticali e orizzontali della gerarchia lavorativa. La seconda, quella del potere: il potere dei mariti sulle mogli e dei padri sulle figlie, l’esperienza di sopraffazioni e violenze vissuta entro le mura di casa, fino alle forme più tacite di subordinazione, anche simbolica.

La terza, la dimensione emotiva, che fa riferimento alle asimmetrie nelle aspettative che una società costruisce intorno all’espressione e alla gestione delle emozioni sulla base del genere. La quarta, infine, è la dimensione culturale e discorsiva, e si ritrova nei discorsi comuni, nei testi scritti, nelle rappresentazioni visive, in cui maschilità e femminilità vengono continuamente evocate e riprodotte, ribaltate e contestate, in condizioni di visibilità e accesso alle risorse che sono però asimmetriche. Ebbene, l’educazione di genere può contribuire a contrastare la disuguaglianza in tutte queste dimensioni e in quanto tale ci chiama al lavoro come genitori, come amici, come adulti di riferimento, come datori di lavoro e come cittadini.

Per mostrarlo, faremo riferimento a ricerche che vanno dalla psicologia all’antropologia, alla sociologia, alla pedagogia, alla storia: chi si occupa di studi di genere, d’altra parte, sfida spesso necessariamente i confini disciplinari. Secondo alcuni, però, il genere dovrebbe rimanere fuori dalle mura scolastiche. Come se esse non fossero comunque pregne di significati e pratiche che portano i segni delle aspettative sociali sul maschile e sul femminile: nei programmi ministeriali, nel linguaggio, nei libri di testo, nelle interazioni in classe, nella conformazione di materiali e spazi. Sia ben chiaro, la scuola (quella italiana, almeno) rappresenta certamente uno spazio privilegiato per quanto riguarda le asimmetrie di genere rispetto ad altri contesti della vita sociale. Ma ciò non significa che ne sia priva: eludere la loro elaborazione vuol dire lasciar agire indiscussi dei meccanismi che contribuiscono a fare della differenza una disuguaglianza.

D’altra parte, più di altre istituzioni la scuola ha la missione caratteristica di far emergere specificità e talenti, alimentare competenze nella selezione e nel vaglio critico delle informazioni, offrire gli strumenti per costruire una società più egualitaria e inclusiva. Si tratta di mettere a disposizione delle nuove generazioni (e anche delle meno nuove) delle risorse per orientarsi e intervenire in una società che è, lo si voglia o meno, complessa e disuguale. Di fronte a queste sfide, il nostro modo di intendere l’educazione non può rimanere indifferente.

 

Da “Fare la differenza. Educazione di genere dalla prima infanzia alletà adulta”, Rossella Ghigi, Il Mulino, 160 pagine, 13 euro

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