Il gran ritorno della parola «genocidio» al centro del discorso pubblico ha uno strano sapore di rivalsa, per mille e spesso contraddittorie ragioni, come contraddittori e male intonati sono i piani, i protagonisti e i palcoscenici su cui si svolge il dibattito: dalle macerie di Gaza al Festival di Sanremo, passando per l’Ucraina in guerra, Biden e Trump, Zelensky e Zia Mara. Ed è difficile sfuggire alla sensazione che la caratteristica decisiva della nostra epoca sia proprio questo guazzabuglio.
Un guazzabuglio in cui le polemiche sollevate dall’appello di Ghali a fermare il «genocidio», dalla replica dell’amministratore delegato della Rai declamata in diretta da Mara Venier e dall’intervista del cantante non pubblicata da Repubblica finiscono per apparire come una continuazione con gli stessi mezzi dello scontro tra Geolier e sala stampa, filo-partenopei e filo-ztl, élite e pop (rap, trap, tric e trac o come lo volete chiamare).
In questo contesto, parlare di qualcosa di enorme come un genocidio, prima ancora che giusto o sbagliato, è impossibile e assurdo, come un appello al cessate il fuoco pronunciato con degli orsetti appiccicati alla giacca.
Da un lato non si può non avvertire un sapore di rivalsa nell’uso e nell’abuso del termine «genocidio» rivolto contro gli ebrei, che implica logicamente la totale rimozione dei milleduecento morti del 7 ottobre e dei centotrentaquattro ostaggi ancora nelle mani di Hamas, ridotti evidentemente a puro pretesto, o comunque a dettaglio insignificante dinanzi alla reazione di Israele; dall’altro si può dire altrettanto di chi, sulla base di questo stesso ragionamento, sembra disposto a giustificare, se non addirittura ad approvare entusiasticamente, qualunque massacro Israele decida di compiere a Gaza.
In teoria, tutte le persone ragionevoli dovrebbero convenire sulla condanna di Hamas e sulla richiesta di rilasciare gli ostaggi, e al tempo stesso sulla necessità di fermare la carneficina a Gaza; nonché sull’irripetibile giudizio che di Benjamin Netanyahu ha recentemente espresso Joe Biden, presidente degli Stati Uniti, da sempre il principale alleato di Israele. Il problema è che di persone ragionevoli ne sono rimaste pochissime.
Guidati come siamo da idiosincrasie e riflessi condizionati vecchi di decenni e ormai del tutto anacronistici, tendiamo istintivamente a rimuovere tutto ciò che complica anche solo un minimo il quadro e gli schieramenti delle nostre guerre immaginarie (sempre meno sovrapponibili alle guerre reali): liberali pro-israele e pro-sala stampa di Sanremo contro una sorta di fronte popolare (o campo largo) che andrebbe da Hamas a Geolier.
Tra i dettagli che complicherebbero il quadro, in pochi ricordano ad esempio il sostegno incondizionato che a Netanyahu e alla sua strategia Trump ha offerto in questi anni, un aspetto che andrebbe invece ricordato ogni giorno ai tanti ingenui o interessati ripetitori della propaganda sull’unico presidente americano che non avrebbe mai fatto guerre (tipo Giuseppe Conte, che proprio con un simile argomento ha clamorosamente motivato, qualche settimana fa, la sua riluttanza a scegliere tra i due candidati alla Casa bianca).
E non si dovrebbe dimenticare nemmeno cosa accadde quando gli ucraini iniziarono a parlare di «genocidio» a proposito della guerra condotta dalla Russia di Putin con l’esplicito intento di cancellare il loro paese dalla carta geografica. In molti storsero il naso, a cominciare da Israele e da Netanyahu, allora ben attento a non guastarsi i rapporti con Mosca. Chissà se a qualcuno è tornato in mente, dopo avere constatato i cordiali rapporti tra la Russia e Hamas, prima, durante e dopo gli attacchi del 7 ottobre.
Viviamo circondati da immani tragedie, che mezzi di comunicazione e social network ci mettono davanti in tempo reale in una misura, con un’intensità e un’illusione di prossimità mai conosciute prima. Forse anche per non impazzire, o forse invece proprio per impazzire meglio, è come se avessimo bisogno di affogare tutto questo in un interminabile flusso di fregnacce, alla sola condizione che confermino ogni nostro pregiudizio, rassicurandoci nelle nostre certezze e nelle nostre appartenenze. In parte, come è noto, è la logica perversa dell’algoritmo dei social network. In parte, forse, è semplicemente la natura umana.
La domanda che resta aperta è se sia ancora possibile dire qualcosa di sensato nell’epoca della par condicio dei genocidi, e a cosa mai possa servire.