Antisemitismo da concertoIl caso di Matisyahu e il boicottaggio degli artisti ebrei in Europa e America

Costretto ad annullare esibizioni in California e Arizona per questioni di sicurezza, l’artista, caso raro di rapper e musicista reggae chassidico, accusa i titolari dei locali di cancellazioni sempre più frequenti e sospette

Matisyahu, al secolo Matthew Paul Miller, è un artista reggae autore di canzoni a tema ebraico che vanta nomination ai Grammy. In questi giorni è stato costretto ad annullare diversi concerti in California e Arizona. Motivo ufficiale: «Questione di sicurezza». La realtà però è che molti tecnici dei locali hanno voluto boicottarlo. boicottato del loro staff si sono rifiutati di partecipare ai suoi concerti.

Per l’artista, quindi, si è trattato di una cancellazione pretestuosa che nasconde una forma di antisemitismo.

«Probabilmente questi ragazzi pensano che la loro vicinanza al popolo palestinese debba per forza portare a odiare quelli come me che provano vicinanza sia per gli israeliani che per i palestinesi», ha scritto Matisyahu su Instagram. «È davvero triste quando il dialogo con chi non la pensa come te viene sostituito dall’odio e dal bavaglio all’espressione artistica».

Conosciuto per hit come One Day e King Without A Crown, Miller ha fatto sapere che con la sua band aveva raggiunto il sold out al Meow Wolf, un locale di Santa Fe. Ma poco prima del concerto il locale ha contattato i possessori dei biglietti per informarli della cancellazione dello spettacolo per motivi di sicurezza. Ma poi è diventato palese che a bloccare l’esibizione era una parte di personale non disposto a lavorare per lui. 

Al Rialto Theatre di Tucson, in Arizona, non è andata diversamente. Nella notifica di cancellazione agli aspiranti spettatori i vertici del locale hanno fatto cenno a problemi di sicurezza e scaricato la colpa sulla carenza di personale. Il musicista ha allora diffuso dei post in cui si offriva di pagare di tasca propria il personale disposto a sostituire gli assenteisti. Ma è stato inutile, perché dai locali nessuno ha risposto. 

Matisyahu, 44 anni, eaprime una spiccata sensibilità ebraica nella sua musica. Con Jerusalem è stato protagonista di un successo internazionale, anche se è diventato famoso nel 2005 perché raro, o forse unico, esempio di artista chassidico che rappava, faceva beatbox e mostrava orgogliosamente la lunga barba e il suo tzitzit, lo scialle di preghiera con le frange, molto popolare tra gli ortodossi. Da allora è cambiato e si è rasato la barba anche se ha più volte dichiarato di identificarsi ancora nella dottrina chassidica.

La sua appartenenza ebraica e l’esibizione della stessa hanno reso varie volte Matisyahu un bersaglio ideologico. Si è sempre dichiarato a favore di gruppi di sostegno allo stato di Israele, come l’AIPAC (American Israel Public Affairs Committee) e nel 2015, ha rifiutato di esibirsi al Rototom Festival di Valencia dopo che gli organizzatori gli volevano imporre di firmare una lettera a sostegno di uno Stato palestinese e una dichiarazione di impegno a non discutere di politica durante il concerto.

Dopo il 7 ottobre Matisyahu è andato più volte in Israele per cantare per i soldati israeliani e ha eseguito One Day alla marcia per Israele del 14 novembre a Washington. «È vero che all’inizio la mia musica era molto radicata nella mia esperienza ebraica», ha detto al Jewish Journal of Greater Los Angeles all’inizio di febbraio. «Ma la reazione a quanto accaduto il 7 ottobre non è un sussulto religioso, ma un forte bisogno di ritornare all’essere ebreo e al sentirsi ebreo, a cercare il contatto con altri ebrei e con Israele e parlare apertamente di ciò che sta accadendo. E anche di scrivere canzoni sul tema».

In questi giorni Matisyahu ha preso a commentare con frequenza sui social contro questo strisciante antisemitismo da concerto: «Abbattere i manifesti dei bambini rapiti non porta la pace», scrive, «Intonare slogan genocidi contro gli ebrei non porta la pace, così come impedire ai fan di tutte le etnie e religioni di cantare insieme a Santa Fe o a Tucson non porta la pace. Anzi, fa il contrario».

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