Spia accesaLa prima indagine sulla tecnologia che cambierà la vita di tutti

Il libro “La tua faccia ci appartiene” (Orville Press), di cui pubblichiamo questo estratto, è il frutto di un magistrale lavoro d’inchiesta della giornalista del New York Times Kashmir Hill sulle intelligenze artificiali per il riconoscimento facciale, sui rischi e le potenzialità a cui sono inevitabilmente connesse

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Online la società era presente solo con un sito blu molto semplice, impreziosito da un logo alla Pacman, con la «C» che zompava sulla «V» e lo strillo «intelligenza artificiale per un mondo migliore». Non c’era altro, a parte un form per richiedere l’accesso, che avevo riempito senza alcun risultato, e un indirizzo di New York.

Da una ricerca su LinkedIn – che come noto è un sito per professionisti, dove i tech rampanti amano presentare se stessi e il proprio lavoro nei termini più lusinghieri – avevo ricavato un solo nominativo, quello di un certo John Good.

Benché nella foto profilo sembrasse di mezza età, Good risultava aver ricoperto, nella sua carriera, un solo incarico, quello di «direttore commerciale a Clearview AI». Su LinkedIn, molti utenti hanno centinaia di contatti: questo signore ne aveva due. Un nome generico, una bio ridotta all’osso, nessun link. Ma Mr Good esisteva davvero?

Per sì per no gli avevo mandato un messaggio, senza ottenere risposta.

Non mi restava che il porta a porta. Cercando sulla mappa l’indirizzo preso dal sito avevo scoperto che era nel bel mezzo di Manhattan: che ci crediate o no, a un paio di isolati dall’edificio del «New York Times». E così, in un pomeriggio grigio e freddo, mi ci sono trascinata a piedi. In teoria avrei dovuto metterci cinque minuti, ma avendo raggiunto quella fase della gravidanza in cui accelerare il passo significa scatenare le note contrazioni Braxton-Hicks, mi ci è voluto più del doppio.

Quando ho raggiunto il punto del marciapiede indicato da Google Maps il mistero si è infittito. Il palazzo che avrebbe dovuto ospitare la sede centrale di Clearview ai non esisteva. L’indirizzo ufficiale della società era 145 West, Quarantunesima. Al 143 West c’era un locale per consegne, ma al numero successivo, sull’angolo di Broadway Avenue, c’era solo una sede di WeWork. Il cui indirizzo era 1460 Broadway. Pensando che forse Clearview aveva affittato uno spazio a WeWork ho messo il naso dentro e ho chiesto al portiere, che tuttavia ha negato.

Ero finita dentro Harry Potter. Doveva esserci una porta magica – a trovarla.

Ho provato a raggiungere l’avvocato Clement, per farmi dire se avesse davvero scritto una memoria legale per una società con un solo dipendente – fasullo – e un indirizzo inesistente. Ma Clement non ha mai risposto, né alle ripetute telefonate né alle mail.

Nel frattempo avevo fatto qualche ricerca, tentando di capire se Clearview compariva nei siti governativi, o in quelli che tengono d’occhio gli investimenti delle startup, e qualche altro nome legato alla società l’avevo anche trovato. Da PitchBook, un portale che traccia i capitali di rischio, risultava che Clearview avesse due investitori: uno mai sentito, e un altro anche troppo familiare, Peter Thiel. Thiel ha cofondato PayPal, sostenuto Facebook nella prima fase, e creato Palantir, il colosso della raccolta dati. Quando si tratta di investimenti tech è una specie di re Mida, anche se con le sue iniziative in altri campi, dal sostegno a Trump al finanziamento della battaglia legale contro il blog Gawker (che ha poi portato alla sua chiusura), non si è guadagnato solo simpatie.

In ogni caso anche lui, come tutti gli altri di cui mi ero messa sulle tracce, mi aveva rimbalzato.

Dai documenti ufficiali risultava che Clearview era stata fondata nel 2018 in Delaware, e aveva una sede nell’Upper West Side. Ho preso nota e mi sono infilata nella metro. Il treno, un convoglio della linea C, non era particolarmente affollato. Fremevo, ogni fermata un po’ di più. Quando sono tornata in superficie, poco dopo il museo di storia naturale, ho scoperto che l’indirizzo corrispondeva a una strada insolitamente tranquilla, più o meno sotto le guglie del Dakota. Non vedevo l’ora di bussare alla porta che, immaginavo, nascondeva il mistero. Non vedevo talmente l’ora che ho affrettato il passo, ignorando le proteste dei muscoli là sotto.

L’edificio aveva un esterno déco, con una porta a vetri girevole e balconcini ai piani. Sembrava decisamente residenziale. Nell’androne c’erano alcuni divani e un albero di Natale. Tutto molto intimo. Un portiere gallonato è venuto alla porta per chiedermi chi cercassi.

«Clearview ai. Dovrebbe essere nella suite 23-S».

Mi ha guardato come se non capisse. «Qui non ci sono uffici. Solo abitazioni».

Non mi ha fatto neanche salire. Un altro vicolo cieco.

Poi un giorno, su Facebook, ho trovato il messaggio di un certo Keith. Non ne avevo memoria, ma Keith sosteneva che ci fossimo incontrati una decina di anni prima, a un gala di italoamericani. All’epoca in effetti ero molto più disinvolta in fatto di privacy, e sui social davo la cosiddetta amicizia più o meno a chiunque me la chiedesse.

«Mi dicono che stai cercando di metterti in contatto con Clearview,» scriveva Keith. «Li conosco, sono grandiosi. Come posso aiutarti?».

Keith lavorava per una società immobiliare di New York, e non capivo che legami potesse avere con una startup di riconoscimento facciale. Avendo varie domande per lui – ad esempio come avesse fatto a sapere che stavo facendo ricerche su Clearview, e se conoscesse di persona la mente tecnologica dietro a quell’app decisamente futuristica – gli ho chiesto il numero di telefono.

Nessuna risposta.

Ci ho riprovato due giorni dopo.

Silenzio.

Essendo piuttosto evidente che Clearview non aveva la minima intenzione di parlarmi ho tentato un’altra strada, e cioè cercare di capire se lo strumento fosse efficace come dicevano. Ho rintracciato qualche agente che la stava usando, a cominciare da Nick Ferrara, un detective di Gainesville, in Florida. E per la prima volta ho trovato qualcuno disposto a parlare di Clearview ai con me. Cioè, più che disposto, entusiasta.

«La adoro. È pazzesca. Sarei pronto a farle da testimonial, se me lo chiedessero,» ha attaccato.

Il detective Ferrara aveva sentito parlare per la prima volta di Clearview scorrendo una pubblicità su CrimeDex, un sito per investigatori specializzati in reati finanziari. Presentandosi come «Google per le facce», Clearview offriva trenta giorni di prova gratuita. Bastava iscriversi con una mail, e Ferrara lo aveva fatto.

Appena entrato, si era fatto un selfie, e avviato la ricerca. Il primo risultato era stata la sua foto profilo su Venmo, comprensiva di link alla sua pagina del sito per pagamenti online. Impressionante.

In quel momento Ferrara aveva una decina di casi aperti, e come unico indizio le foto dei presunti truffatori davanti a un bancomat, o a una cassa della filiale. In precedenza aveva sottoposto le immagini a uno strumento di riconoscimento facciale fornito dallo stato, ma senza risultati. Poi ci aveva provato con Clearview, ottenendo una vera e propria raffica di riscontri. In un lampo aveva identificato trenta sospetti. Incredibile.

Tratto dal libro della giornalista del New York Times, Kashmir Hill, “La tua faccia ci appartiene” (Orville Press), 26€, pp. 400.

Il libro verrà presentato in due date:

– 6 febbraio, Milano, Università Cattolica, Sala Negri da Oleggio, ore 17.30: Kashmir Hill con il prof. Giuseppe Riva (direttore HT Lab della Cattolica) e Massimo Sideri.

– 8 febbraio, Torino, Circolo dei Lettori, Sala Gioco, ore 19.00, presentazione del libro La tua faccia ci appartiene con l’autrice Kashmir Hill (New York Times) e Gabriele Beccaria (La Stampa). Evento “Aspettando la Biennale Tecnologia 2024” organizzato da Orville Press in collaborazione con Politecnico Torino e Circolo Lettori.

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