È trascorso poco più di un anno da quando il premier olandese Mark Rutte è volato a Washington per incontrare il presidente degli Stati Uniti Joe Biden. Una visita per consolidare i legami transatlantici, dai toni amichevoli, con Biden che gli ha persino permesso di sedersi dietro la sua scrivania nello Studio Ovale per una foto. Chissà che l’idea di correre per la leadership della Nato non sia sorta nella testa di Rutte proprio in quegli attimi: un volo pindarico dalla scrivania più importante del fronte occidentale alla guida dell’Alleanza atlantica.
Il mandato dell’attuale segretario generale Jens Stoltenberg è infatti quasi al termine, dopo essere stato prolungato di un anno lo scorso luglio per garantire stabilità all’organizzazione, soprattutto sul fronte russo-ucraino. Il 1° ottobre dovrebbe entrare in carica il suo successore, che sarà scelto ufficialmente nelle prossime settimane: secondo varie fonti, la nomina potrebbe arrivare per il 4 aprile, in occasione del settantacinquesimo anniversario dalla fondazione della Nato, mentre i più cauti pongono come deadline il vertice di luglio a Washington.
L’ambasciatrice statunitense presso la Nato Julianne Smith ha dichiarato la scorsa settimana che gli alleati dovrebbero puntare a «completare il processo di selezione entro il primo trimestre. L’obiettivo è quello di evitare caotiche sovrapposizioni con le elezioni europee e i relativi risultati, ma anche di arrivare preparati alle presidenziali statunitensi di novembre.
L’iter per diventare un leader Nato non è particolarmente codificato, non si può fare application su LinkedIn o presentarsi alle elezioni con un proprio partito. Secondo le regole, il segretario generale deve essere deciso all’unanimità, il che significa che deve ottenere il sostegno di tutti i trentuno Paesi membri. Come è facile immaginare, però, il voto di alcuni vale più di altri. Bisogna quindi agire dietro le quinte e sapere quando uscire allo scoperto, calibrare i tempi e coltivare relazioni con i partner atlantici. Assomiglia quasi più al calciomercato che alla politica: in questo senso, da oltre un anno si susseguono rumours sugli eredi di Stoltenberg, con nomi di famosi funzionari europei, di leader nazionali o di potenziali outsider gettati nella mischia. Tra gli altri, si è parlato del premier spagnolo Pedro Sanchez, del ministro della Difesa britannico Ben Wallace o del ministro degli Esteri lettone Krisjānis Karinš.
La pista Rutte è diventata calda nell’ultima parte del 2023, quando non si è ricandidato alle elezioni e ha fatto intendere di puntare a una carica internazionale; durante il programma radiofonico Spuigasten ha definito il lavoro di segretario generale della Nato come «molto interessante». Da novembre in poi, ha iniziato a fare campagna (o forse sarebbe più giusto dire lobbying) per la sua nomina, facendo sentire la sua voce anche nei consessi più rilevanti per l’Occidente. È intervenuto al World Economic Forum di Davos, in Svizzera, e alla Munich Security Conference, in Germania, e in entrambi i casi ha esortato i Paesi europei a spendere di più per la difesa, un refrain che non sarà dispiaciuto nemmeno all’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump.
In questo momento, Rutte può vantare il sostegno degli Stati Uniti, l’azionista di maggioranza dell’alleanza, e quello di Francia, Germania e Regno Unito, oltre che di gran parte dei Paesi dell’Europa occidentale. Washington caldeggia da tempo il suo approdo alla Nato: secondo varie fonti avrebbe provato a convincerlo altre due volte in passato, con Rutte che avrebbe rifiutato per continuare la sua avventura politica in patria. In questi giorni Politico ha scritto che Biden avrebbe dato il via libera alla sua candidatura e che due terzi dei Paesi Nato avrebbero fatto altrettanto.
Creare consenso tra i trentuno alleati è il compito principale del segretario generale e Rutte è un pragmatico negoziatore, un veterano del dialogo. A vederlo così, il suo sembra l’identikit del candidato perfetto, ma anche il suo profilo presenta delle vulnerabilità – una su tutte la spesa per la difesa dei Paesi Bassi, ancora sotto la soglia psicologica del due per cento del Prodotto interno lordo: 1,70 per cento del Pil nel 2023 e 1,95 per cento nel 2024. Numeri che indeboliscono la sua posizione.
Il possibile successo di Rutte sorprende però anche per un altro motivo: in molti si aspettavano che fosse una donna la favorita per rappresentare l’Alleanza, la prima nella storia. La premier estone Kaja Kallas aveva espresso interesse per il ruolo durante un evento a novembre, ma agli addetti ai lavori sembra fuori dai giochi, nonostante l’Estonia tocchi il tre per cento del Pil per gli investimenti in difesa. A pregiudicare la sua nomina sarebbe soprattutto il suo ruolo di «falco» in Europa contro la Russia del presidente Vladimir Putin, che avrebbe spaventato soprattutto Stati Uniti e Germania riguardo a un rischio escalation.
In alternativa, si era fatto il nome della premier danese Mette Frederiksen e soprattutto dell’attuale presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, la cui nomina sarebbe stata suggerita dal Segretario di Stato americano Antony Blinken. Secondo il quotidiano tedesco Welt am Sonntag, che ha riportato le sensazioni di funzionari e diplomatici europei, al cancelliere tedesco Olaf Scholz non sarebbe andata molto a genio l’idea. Anche von der Leyen potrebbe essere troppo critica nei confronti di Putin e questo potrebbe «rivelarsi uno svantaggio a lungo termine», avrebbe detto Scholz.
La sua bocciatura sembra giocare a favore di Rutte, che però dovrà prima convincere i due «fratelli problematici» dell’Alleanza: il presidente turco Recep Tayyip Erdogan e il premier ungherese Viktor Orbán, gli stessi che hanno rallentato l’accesso svedese alla Nato. Se Orbán ha più volte accusato il leader olandese di «odiarlo», Erdogan ha recentemente fatto filtrare i suoi desiderata, come riportato da Bloomberg.
Non sbilanciarsi troppo verso i membri Ue dell’Alleanza (soprattutto le rivali Grecia e Cipro), favorire le partnership di Ankara con i Paesi europei e assicurarsi che non ci siano restrizioni sulle esportazioni di difesa tra alleati Nato: queste le richieste di Erdogan, che sembra in generale favorevole alla nomina di Rutte, pur non avendo ancora dato il suo placet. Nel corso degli anni, i due hanno avuto un rapporto piuttosto travagliato (effettivamente, sono in pochi a non essersi scontrati con Erdogan), ma di recente le relazioni si sono normalizzate.
A parte questi ostacoli, la vera sfida per Rutte potrebbe arrivare una volta in carica: se venisse rieletto alla Casa Bianca Donald Trump, che recentemente ha già irritato i partner europei con i suoi inviti a raggiungere gli standard di spesa definiti dall’organizzazione, pena un’invasione russa. Gestire i fuori programma di Trump potrebbe essere uno dei compiti più impegnativi per il nuovo segretario, che dovrà guidare i partner nel contenimento delle minacce russe e verso decisioni importanti sugli investimenti a lungo termine per nuove munizioni di precisione. O ancora, trovare un equilibrio tra le richieste di Washington di acquistare prodotti americani e le ambizioni europee di sviluppare le capacità produttive locali nel settore della difesa.
Ian Lesser, rappresentante del German Marshall Fund, ha detto a Deutsche Welle che bisogna «scegliere una persona in grado di adattarsi a una varietà di possibili esiti a Washington. E alcuni di questi potrebbero essere politicamente molto impegnativi per l’Europa», alludendo all’eventualità che Donald Trump possa tornare in carica. L’esperienza a Rutte non manca: ha già avuto a che fare con il tycoon newyorkese, che, durante un incontro a Washington nel 2018, ha sottolineato come durante il suo mandato i due fossero «diventati amici». Prima di spingersi troppo in avanti, meglio procedere per gradi: Rutte dovrà prima conquistarsi il ruolo di segretario generale.