Signore e Signori, cari amici,
è un piacere ritrovarvi così numerosi e su questioni tanto gravi. Sono certo che oggi sia essenziale un ampio ed esplicito confronto tra la democrazia liberale e le diverse forme di populismo e totalitarismo che rimettono profondamente in discussione ciò che siamo. A essere sotto attacco sono i valori universali del 1789, il nostro patrimonio collettivo, la democrazia, il rispetto dell’essere umano e dell’alterità, lo Stato di diritto e la separazione dei poteri, l’uguaglianza tra donne e uomini, la libertà di coscienza, di credere o non credere, pensare, scrivere o fare caricature, fare cultura.
Molti sono i fronti: non c’è solo uno scontro tra l’Occidente e il resto del mondo, tra il bene e il male, lettura caricaturale, questa, che a me non piace. Il populismo è prima di tutto il nostro nemico interno che attacca noi stessi e i nostri sistemi democratici. Come negli anni Trenta, è innanzi tutto un prodotto occidentale. Tutti sappiamo quale grave pericolo possa rappresentare l’elezione, il prossimo novembre, di Donald Trump. Pericolo per la democrazia americana, per l’Alleanza Atlantica, per noi europei e, ovviamente, per l’Ucraina. Riuscite a immaginare un mondo con Trump da una parte e Le Pen dall’altra? Lo scenario è tutt’altro che inverosimile.
Ecco, dunque, perché la prima linea del fronte è in Ucraina, dove è in gioco il nostro futuro. Il futuro dell’Europa, dei nostri interessi fondamentali e della democrazia. Bisogna fare di tutto per sostenere il coraggioso popolo ucraino, fare di tutto perché la Russia non prevalga, fare di tutto perché abbiano la meglio il diritto internazionale e la giustizia. Di tutto. E grazie, caro Bernard-Henri Lévy, per aver illuminato le nostre coscienze con costanza e coraggio, su questo tema come su tanti altri.
L’altra linea del fronte è la guerra che l’islamismo sta combattendo contro di noi e la cui matrice è l’odio antiebraico. È il 19 marzo e il mio cuore sprofonda, caro Arié Bensemhoun (ex presidente della comunità ebraica di Tolosa, n.d.t.). Dodici anni fa il nostro Paese fu colpito a Montauban e a Tolosa (città nella regione dei Midi-Pirenei che nel marzo 2012 hanno subito attentati che hanno causato la morte di tre militari e quattro civili ebrei e il ferimento grave di altri cinque, n.d.t.).
Dodici anni fa, esattamente quel giorno, ci ritrovavamo nel cortile della scuola Ozar-Hatorah martirizzata da un terrorista islamico. Voglio rendere omaggio alla memoria di Samuel Sandler (responsabile laico della comunità ebraica di Versailles, il 19 marzo 2012 suo figlio Jonathan di trent’anni e i suoi nipoti Arié e Gabriel di se e tre anni sono stati assassinati davanti alla scuola ebraica Ozar Hatorah di Tolosa, n.d.t.), un padre e un nonno che ha vissuto il peggio mantenendo sempre una dignità esemplare, incarnando la parte migliore della Francia e del mondo ebraico.
Caro Arié, è logico che ci incontriamo di nuovo, questa sera, entrambi in nome di una bella amicizia e di lotte comuni, in questo momento molto pericoloso per il nostro Paese. Grazie per il vostro impegno e per l’organizzazione di questo magnifico incontro.
L’Europa è più che mai il bersaglio del jihadismo e dell’islamismo. La loro strategia è a lungo termine e si struttura dapprima nei paesi europei dove vivono grandi comunità musulmane. Loro obiettivo è attaccarci non solo dall’esterno, ma soprattutto dall’interno, colpirci al cuore per seminare terrore e divisione. Da molti anni la Francia è presa di mira nella sua dimensione democratica, laica, cristiana ed ebraica, perché la nostra civiltà è millenaria, perché siamo il Paese dell’Illuminismo e i nostri valori sono universali. La nostra scuola e i nostri coraggiosi insegnanti sono sotto tiro. E così la stampa e da sempre: Charlie Hebdo e la sua redazione incarnano la libertà e la Francia di Voltaire e Rabelais.
Abbiamo dimenticato cosa sia il tempo e tra un attentato e l’altro non pensiamo al fenomeno. Purtroppo, saremo di nuovo colpiti. All’indomani dei terribili attentati del gennaio 2015 (nella sede di Charlie Hebdo dove furono uccise dodici persone, n.d.t.) dissi ai giovani liceali: «Siete una generazione che conviverà con il terrorismo». Cosa poco piacevole da dire o da sentire, eppure è necessario ricordare costantemente ai francesi che questa sarà una battaglia lunga e difficile. Abbiamo quindi bisogno della mobilitazione di tutta la società, ovunque.
Questa guerra è alimentata dall’Islam politico e dai Fratelli Musulmani. Dobbiamo comprendere il legame tra jihadisti e islamismo che convalida ideologicamente le rotture con la società. Dobbiamo essere consapevoli che nel nostro Paese vi sono migliaia di persone radicalizzate che rappresentano una minaccia grave. Dobbiamo contare innanzitutto sulle nostre forze di sicurezza e sui nostri eserciti, sul lavoro paziente dei nostri servizi di intelligence e sulla giustizia. Ma dobbiamo condurre una guerra ideologica, intellettuale e culturale contro l’islamismo. Dobbiamo capire che l’Islam e i musulmani sono coinvolti, da circa quarant’anni, nelle convulsioni del mondo contemporaneo: la rivoluzione iraniana, la caduta del muro di Berlino, le guerre in Afghanistan, il sostegno dell’Arabia Saudita e del Qatar all’Islam fondamentalista, la fatwa di Khomeini contro lo scrittore britannico Salman Rushdie, la guerra civile algerina che negli anni Novanta ha fatto centocinquantamila morti, gli attentati dell’11 settembre 2001. E poi quelli in Europa.
La grande sfida è quindi all’interno dell’Islam: dobbiamo impedire la collusione tra l’Islam fondamentalista e l’Islam moderato. I musulmani d’Europa sono l’obiettivo degli islamisti e vogliono separarli dal resto dei cittadini. Si augurano ritorsioni contro di loro e in attacchi contro le moschee tali da provocare un clima di guerra civile. Per questo devono essere protetti ma, insieme, è necessario ricordar loro le responsabilità che hanno. Tutti i musulmani devono opporsi a questo islamismo.
Sono particolarmente preoccupato quando leggo che il cinquantasette per cento dei giovani musulmani ritiene la legge della Sharia più importante della legge della Repubblica. Se non saremo capaci di costruire in Europa un Islam illuminista, che implichi in particolare la promozione degli intellettuali musulmani portatori dei nostri valori, attraverso il lavoro di interpretazione del Corano, attraverso il controllo degli imam, attraverso una rottura di fatto con l’Islam dei paesi di origine, il peggio è possibile: e dunque, lo scontro.
Il sentiero sul crinale è stretto. Siamo democrazie, stati di diritto e anche società che si trovano ad affrontare una crisi di fiducia senza precedenti. È un momento difficile, terribile. Difendere questa democrazia, la nostra civiltà, società secolarizzate o laiche, tolleranti, con la nostra eredità giudaico-cristiana, integrare l’Islam di milioni di cittadini che non se ne andranno e la grande maggioranza dei quali, va ricordato, rifiutano l’islamismo, è un impegno considerevole e compito cruciale.
Ma qual è il legame con Israele? La linea del fronte è la medesima pur con tutte le differenze e sfumature. Israele, unica democrazia della regione, una società aperta dove due milioni di arabi israeliani vivono con gli stessi diritti del resto della popolazione, viene attaccata dagli islamisti di Hamas.
Voglio dire qualcosa di più personale. Mi reco regolarmente in Israele da oltre quarant’anni. Ho sempre vivi nella memoria i miei incontri con i giovani lavoratori laburisti all’inizio degli anni Ottanta, i viaggi spensierati in Cisgiordania, i soggiorni nei kibbutz, il successivo gemellaggio della città di Évry con il campo di Khan Yunes, nel sud di Gaza (prima che Hamas prendesse il potere).
Ho pianto Yitzhak Rabin, l’uomo degli accordi di Oslo che aveva fatto nascere tante speranze, assassinato da un ebreo fanatico. Ricordo ancora la mia ultima discussione nel 2015 con Shimon Peres che ha sempre creduto nella pace e che immaginava cosa avrebbero portato agli Accordi di Abramo. Amo questo paese, questo popolo, il suo dinamismo, la sua resilienza, la sua forza, il suo esercito, l’Idf, coraggioso, giovane e popolare pur consapevole delle sue debolezze e delle sue fratture.
«Adoro questo popolo-mondo, incastrato su quel minuscolo lembo di terra che ha finito per consentirgli, tre quarti di secoli fa, un Occidente e un mondo grondanti tutto il sangue ebraico versato nel torrente dei secoli e adoro questo miracolo di tenacia e di intelligenza, di lucidità e bontà: mentre, come il primo giorno, proprio come il primo giorno, sente i suoi vicini gridare di morte, resta nella sua maggioranza, fedele ai suoi principi fondanti e ancora pronto alla pace il giorno in cui lo saranno anche gli altri». Queste parole non sono mie. Le troverete nella meravigliosa opera di Bernard-Henri Lévy. Così forte, così giusto, così personale. Queste parole le faccio mie. Non ricordo nemmeno più quante volte sono andato in Israele. Ma dopo il 7 ottobre, tutto è cambiato.
L’ho percepito profondamente, sul posto accanto a te, caro Arié, e accanto ai deputati che saluto e che ci hanno accompagnato. Pochi giorni dopo il 7 ottobre – noi francesi e tutti gli altri – eravamo immersi nello smarrimento e nell’incomprensione di un Paese, nell’orrore degli atti perpetrati, nell’odore di morte, nel dolore, nella dignità e nelle lacrime delle famiglie e dei cari delle vittime e ostaggi, nella reazione dell’Idf. Non ne siamo tornati indenni.
Abbiamo anche subito capito l’implacabile meccanismo del «sì… ma», questo nuovo negazionismo, messo in atto per cancellare questo crimine e fare della reazione degli aggrediti la ragione di tutti i mali. Peggio ancora: la vittima alla fine se l’è cercata. Ah, se la vergogna avesse un volto! Perché quello che ho capito ascoltando tanti commentatori dopo il 7 ottobre è che tutte le disgrazie del mondo sono da attribuire allo Stato di Israele. Del resto, come abbiamo sentito in televisione, gli israeliani massacrati al rave party erano consapevoli dell’“indecenza” della loro festa mentre a poche centinaia di metri in linea d’aria i palestinesi vivevano in “una prigione a cielo aperto”?
Il 7 ottobre donne incinte sono state sventrate. È insostenibile, lo condanniamo, ma alla fin fine la politica di “colonizzazione” non ha forse acuito l’odio? I neonati venivano decapitati. È una barbarie, certo, ma il blocco di Gaza, alla fin fine, ha messo in gabbia un’intera gioventù.
Le nonne venivano sgozzate, i loro cadaveri calpestati. È orribile, ma non è forse Netanyahu che, alla fin fine, ha causato la crescita di Hamas? Di fondo, la disgrazia di Israele è provocata da se stessa.
Chiediamo a Israele e al suo “governo odioso” temperanza e moderazione, fors’anche esemplarità? In ogni caso, chiediamo al Paese, che attende solo il nostro parere, una risposta “mirata e proporzionata” che, solo in tal caso, sarebbe legittima.
Sì, questo è ciò che sentiamo in Francia, questo è ciò che dice la nostra diplomazia, così priva di fantasia, così codarda, sì codarda come altre cancellerie, per non parlare dell’Organizzazione delle Nazioni Unite totalmente screditata e lontana da ogni idea di realtà. Chiediamo un cessate il fuoco definitivo: ma sarebbe una vittoria per Hamas.
Stiamo proponendo una soluzione a due Stati – io sono a favore – ma adesso? In questo momento? Bell’affare! E come? E con chi? Tutto ciò, oggi, giustificherebbe il 7 ottobre e le atrocità di Hamas.
Ma che hanno nella testa queste persone? Nel rumore e nel frastuono della disapprovazione internazionale, aspetto di sentire ancora una cosa che non ho ancora sentito: è venuto in mente a qualcuno di chiedere ad Hamas di mostrare temperanza e di contenere la sua violenza?
Chi è che chiede ad Hamas di liberare gli ostaggi, frutto di una spregevole contrattazione, di consegnare le armi, di esigere che i suoi leader si arrendano o se ne vadano lontano? Eppure, se tali condizioni venissero attuate, la guerra finirebbe.
La verità è che senza Hamas – organizzazione islamista fondata dai Fratelli Musulmani –, Israele non sarebbe in guerra permanente per la sua difesa e quella dei suoi cittadini di fronte al flusso ininterrotto di razzi lanciati in territorio israeliano e la cui potenza tecnologica impedisce da piangere ogni volta nuove morti.
Senza Hamas non ci sarebbe stato il 7 ottobre, né gli ostaggi, né la guerra. Questo è ciò che la nostra diplomazia dovrebbe difendere piuttosto che far emergere da decenni i medesimi elementi lessicali.
Vogliamo tutti fermare la guerra con il suo corteo di violenza, morte, sofferenza, con, in prima linea, gli israeliani che piangono nel mandare i propri figli a combattere e gli abitanti di Gaza trasformati in scudi umani da Hamas. Ogni vita ha valore ma non le intenzioni.
Allora diciamo le cose come stanno: io non ho alcuna simpatia per il governo di Benjamin Netanyahu e dei suoi ministri ultra, come non ce l’ha la gran parte della popolazione israeliana che per troppo tempo ha visto il proprio Paese impantanato in un’impasse politica. Alla fine della guerra gli israeliani chiederanno spiegazioni e solo loro sceglieranno, sovranamente, di voltare questa dolorosa pagina. Dipende da loro non da noi. Perché gli israeliani costituiscono una democrazia bella e viva.
Dovranno però affrontare altre sfide che non possiamo ignorare, quelle poste da Hezbollah e ovviamente dall’Iran. E anche qui siamo assai preoccupati. Sappiamo che la pace richiederà innanzitutto l’eliminazione dell’apparato terroristico di Hamas. Questa è la prima condizione per ristabilire un’Autorità Palestinese degna di questo nome, a Gaza e in Cisgiordania, a condizione che cambi, che i suoi funzionari corrotti e screditati vengano rinnovati. Con l’impegno di Israele, che esigerà la sicurezza assoluta alle sue frontiere, con il sostegno della comunità internazionale e dei Paesi della regione, sarà necessario trovare una soluzione politica per il popolo palestinese che ha il diritto di avere il controllo del proprio destino.
Ovviamente ci vorrà tempo, molto tempo. E si sa che non sarà affatto facile. E dovremo estendere la bella riflessione che ci ha regalato Jean-Michel Blanquer (ex ministro dell’Educazione nazionale, n.d.t.). Il 7 ottobre è stato il peggior attacco che Israele abbia mai subito nella sua storia. La barbarie espressa e la disumanità delle azioni hanno dato a tutti noi una lezione sul nemico che gli israeliani devono combattere.
I nostri erano e non sono molto diversi. A Tolosa, a Nizza, a Conflans Ste-Honorine (dove il 16 ottobre 2020 il prof. Samuel Paty è stato assassinato da un terrorista islamico, n.d.t.) o a Parigi. Ecco il legame tra il Bataclan e il rave party nel Negev. È talmente ovvio…
Ed ecco perché dobbiamo difendere il diritto di Israele a difendersi. È addirittura un dovere che uno Stato democratico risponda per proteggere i suoi cittadini. Senza offesa per alcuno, la stessa Francia ha dovuto fare questa scelta all’indomani degli attentati del novembre 2015. E mentre Israele lotta come gli ucraini, anche per noi, in difesa dei nostri valori, dobbiamo offrire un appoggio impeccabile e tutto ciò che dobbiamo fare è restare uniti contro l’oscurantismo. Mobilitarci contro l’odio verso gli ebrei che ha travolto i nostri compatrioti dall’inizio del conflitto con il terrorismo.
Per troppo tempo siamo stati solo pochi a denunciare questo dilagare dell’odio verso gli ebrei sullo sfondo dell’ascesa dell’islamismo e della complicità abietta di una parte della sinistra e dei codardi di tutti i partiti. Gli ebrei francesi hanno sperimentato la tortura di Ilan Halimi (ragazzo ebreo di origini marocchine rapito nel 2006 e torturato per tre settimane, n.d.t.). Hanno visto la giustizia negata che Sarah Halimi ha dovuto sopportare dopo la sua morte (il 4 aprile 2017 il corpo straziato di Sarah Halimi, pensionata di sessantacinque anni, è stato trovato per strada a Belleville, n.d.t.).
Gli omicidi di Tolosa, quello dell’Hyper Cacher de la Porte de Vincennes, la morte, nel 2018, accoltellata in casa sua, di Mireille Knoll, sopravvissuta alla Shoah, hanno rivelato questa verità: la Francia dei diritti umani e dell’affare Dreyfus tornava ad essere un Paese dove si poteva morire solo per il fatto di essere ebrei.
Dal 7 ottobre l’ansia e l’incomprensione sono di nuovo presenti. Anche la paura si traduce in una kippah che non indossiamo più, un nome su una cassetta della posta che cancelliamo, una mezuzah che togliamo. E ora a Sciences Po di Parigi non viene permesso che uno studente entri in una riunione perché è ebreo, oh, scusate: sionista!
Come le donne ebree cacciate dalle manifestazioni dell’8 marzo perché volevano ricordare i crimini e l’incomparabile femminicidio del 7 ottobre.
Questo è insopportabile e questa non è la Francia. È ora di ribellarsi e di imporre la Repubblica ovunque.
Allora, caro Bernard-Henri Lévy, tu scrivi della “Solitudine d’Israele”. Gli ebrei sono soli? Sì, hai ragione: «Non esiste una terra, su questo pianeta, che sia rifugio per gli ebrei, questo è quanto afferma il 7 ottobre».
Non capirlo significa non capire nulla di ciò che stiamo vivendo, di ciò che sentono gli israeliani, di ciò che sente il mondo ebraico. Molti non lo capiscono e da qui le clamorose assenze alla manifestazione del 12 novembre contro l’antisemitismo e per la Repubblica. Abbiamo il dovere imperativo di rispettare indefettibilmente la storia degli ebrei nel nostro Paese e il loro dolore passato. Non finirò mai di ripeterlo: senza gli ebrei di Francia, la Francia non sarebbe più la Francia. Questo dovere ci lega anche, attraverso vincoli fraterni, a Israele.
Questa sera voglio dire al popolo israeliano, ai miei compatrioti ebrei, che grazie a questo magnifico incontro, al nostro impegno, al mio e a quello della maggioranza dei francesi, non siete soli.
Amo questo popolo-mondo. Sì, loro hanno il diritto e il dovere di vincere, per se stessi e per noi. È lì che è in gioco anche il nostro futuro, il nostro destino. Il 7 ottobre rivela gli eccessi di una parte della sinistra – la famosa “sinistra inconciliabile” – le devastazioni dell’islamo-sinistra, il wokismo nelle nostre università, il relativismo, il ruolo dei social network, le teorie cospirazioniste che convergono nell’odio per i valori universali e quindi degli ebrei. Sì, è la stessa linea del fronte. Essere patriottici e repubblicani significa capirlo. Il 7 ottobre è quindi una rivelazione che ci obbliga a ripartire.
Solo il repubblicanesimo e una difesa intransigente dei valori universali, della laicità, della nostra scuola, della nostra lingua, dell’unicità della Francia lo permetteranno.
Questa è un’altra storia? No, è lo stessa. E ci incontreremo ancora per parlarne ancora e agire insieme. Allora, passiamo all’offensiva! È questo il patto che firmiamo durante questa bellissima serata.
Grazie.
Traduzione a cura di Setteottobre