Tra le varie dimostrazioni di parzialità e double standard di cui i giornalisti sono costantemente accusati in questo periodo, mi pare si parli poco del diverso trattamento riservato da un lato ad agenti provocatori e propagandisti russi, contesi come rockstar da quotidiani e talk show, dall’altro a predicatori e attivisti dell’Isis, che stranamente nessuno mi pare abbia ancora pensato di ospitare nel proprio salotto televisivo («Signor lupo solitario, quando pensava di compiere il prossimo attentato?». «Ora, se non le dispiace». «Aspetti, la prego: adesso devo mandare la pubblicità»).
Se le mie ipotesi vi sembrano eccessive, è solo perché non avete visto le svariate ospitate televisive di Maurizio Avondet su La7, o la sua intervista di oggi a Repubblica, in cui garantisce tra l’altro, a proposito dell’attentato di Mosca, che «sulla pista ucraina ci sono tutte le prove, sono state fornite dall’Fsb e dalla polizia di Mosca».
Al tema del double standard è dedicato un interessante articolo di Gideon Rachman sul Financial Times: «Ukraine, Gaza and the rise of identity geopolitics». A suo giudizio la classica accusa di preoccuparsi per l’Ucraina assai più che per Gaza, con tutto il relativo dibattito sulla parzialità dell’atteggiamento americano (e occidentale), non terrebbe conto di «un punto di vista più ampio sulla compassione selettiva». E cioè che «le tragedie di Ucraina, Gaza e Israele ricevono molta più attenzione delle guerre e delle calamità umanitarie in altre parti del mondo». Si parla ogni giorno del pericolo di morte per fame a Gaza, per esempio, ma assai meno dell’allarme lanciato dall’Onu sul fatto che il Sudan sarà presto «il caso di crisi alimentare più grave del mondo» (con 18 milioni di persone a rischio); i tentativi di liberare gli ostaggi israeliani sono al centro della diplomazia mondiale da mesi, mentre «il rapimento di 287 bambini in Nigeria (molti dei quali misericordiosamente rilasciati nel fine settimana) ha avuto ben poca attenzione internazionale».
La ragione di questa asimmetria starebbe in quella che Rachman chiama «geopolitica dell’identità». In breve: «È molto più probabile che un conflitto susciti preoccupazione e indignazione a livello internazionale se un gran numero di persone si identificano con coloro che stanno combattendo o soffrendo. Gli europei guardano gli ucraini in fuga e immaginano le proprie città sotto i bombardamenti. Molti musulmani ed ebrei si identificano con le parti in guerra a Gaza». E pertanto, ipotizza, se la guerra del Tigray in Etiopia, in cui sono morte centinaia di migliaia di persone di colore, avesse riguardato bianchi che uccidevano neri, o viceversa, avrebbe ricevuto più attenzione.
A me pare tuttavia che il punto centrale sia, più banalmente, che nessun essere umano può passare ogni minuto delle sue giornate a informarsi con uguale accuratezza e a inorridire con identica intensità per tutte le atrocità che sconvolgono il pianeta. Ragion per cui l’argomento «ti indigni per questo, ma non dici nulla su quest’altro» (noto anche come l’argomento «e allora le foibe»?) è da sempre la più falsa e la più pretestuosa delle ripicche. Proprio come la sua versione speculare, che colpisce sistematicamente sacerdoti, ong e volontari impegnati ad aiutare gli immigrati con l’accusa di non pensare ai poveri italiani. Se anche, per assurdo, si escludessero gli stranieri da ogni forma di solidarietà, verrebbe poi il turno degli ex detenuti (specialmente per certi reati) “privilegiati” al posto di tanti “italiani onesti”, e poi quello dei tossico-dipendenti, e così all’infinito. Denunciare la parzialità della compassione altrui è solo un modo ipocrita di nascondere il proprio desiderio di togliere agli ultimi anche quel poco che ricevono.
La nostra compassione e la nostra indignazione sono sempre selettive, perché sono umane. E dipendono necessariamente dal grado di prossimità in cui ci veniamo a trovare rispetto a chi identifichiamo come vittima, o come carnefice. La nostra scala di priorità varia secondo la nostra collocazione geografica e la rete dei nostri rapporti economici, sociali, culturali, e in questo non c’è nulla di male. Così come non c’è nulla di male nel fatto che lo scoppio di una sanguinosa guerra civile in Francia o in Svizzera attirerebbe l’attenzione di noi italiani assai più della guerra civile sudanese, mentre per l’opinione pubblica etiope o eritrea varrebbe l’esatto contrario. L’argomento «e allora Gaza?» usato da chi vorrebbe abbandonare al proprio destino gli ucraini vale esattamente quanto l’argomento «e allora il 7 ottobre?» usato da chi vorrebbe ignorare la tragedia palestinese, o l’argomento «e allora i coloni?» usato da chi vorrebbe minimizzare il massacro compiuto da Hamas. E cioè niente. È il grado zero della politica. Non per nulla, nel dibattito pubblico di oggi, non discutiamo di altro.
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