Mi domando se esista un solo italiano che abbia capito qualcosa del cosiddetto scandalo dei dossieraggi. Il racconto oscilla infatti tra allusioni a un sistema pervasivo, ramificato, infiltrato nei più delicati gangli dello stato, con complicità e coperture a tutti i livelli, secondo la versione accreditata specialmente dai giornali di destra (ma non solo), e la versione opposta, in cui tutto sarebbe riconducibile a un ufficiale col vizietto della sbirciatina, sostenuta da buona parte della stampa progressista, a cominciare ovviamente dai giornalisti al centro delle accuse (ma non solo).
Scanalando tra tg e talk show, si passa così in un attimo da una democrazia sotto tutela, in cui saremmo tutti spiati come nella Germania dell’est, a un banale problema di sciatteria nella gestione dei dati, che si potrebbe risolvere suggerendo a finanzieri e agenti segreti di non usare «1234» come password. Questa oscillazione, in realtà, è parte fondamentale di una dinamica che si ripete sempre uguale a se stessa almeno dagli anni settanta, in cui nessuno la conta giusta ma tutti concorrono al risultato di fare un gran casino, col risultato di rallentare e opacizzare anche le inchieste (giornalistiche e giudiziarie) meglio intenzionate, affogando tutto in una fanghiglia di mezze verità e balle clamorose che non va più via. Una coltre di sospetti e complotti destinata ad alimentare il peggior giornalismo e la peggiore (anti)politica per i secoli dei secoli, impermeabile a qualunque successivo accertamento, sentenza di tribunale o documentazione storiografica.
All’interno di questa antica tradizione, che tocca uno dei suoi vertici nell’interminabile scandalo della P2, mi sembra si inserisca il bizzarro caso di questi giorni. Si tratta davvero di una singolare «Dossieropoli», in cui tutti i protagonisti, per prima cosa, si affrettano a precisare di non avere mai parlato di «dossieraggi». In cui, solo per stare alle incomprensibili notizie di oggi, la stampa dà conto da un lato della decisione di Giorgia Meloni di bloccare la proposta di una commissione d’inchiesta (appena avanzata dai suoi ministri della Giustizia e della Difesa, cioè quello stesso Guido Crosetto che dei non-dossier sarebbe la prima vittima, e dalla cui denuncia sembrerebbe essere partito tutto), dall’altro di un inatteso comunicato del procuratore generale di Perugia, Sergio Sottani, il quale annuncia di avere «attivato le proprie funzioni di sorveglianza», sottolineando che «l’attività di vigilanza sui rapporti con gli organi di informazione dei procuratori del distretto» gli impone di «verificare il corretto bilanciamento tra il doveroso diritto dell’opinione pubblica ad essere informata nella fase delle indagini ed il rispetto della presunzione di innocenza».
Nel frattempo, come tutti i giornali riportano in qualche pagina interna, molto in fondo, la sentenza sul famigerato caso Consip che aveva fatto tremare il governo guidato da Matteo Renzi, con le indagini sul padre Tiziano e sul braccio destro Luca Lotti, si conclude con solo due condanne, come riassume Luciano Capone sul Foglio, non agli indagati, ma agli indagatori. Cioè agli ufficiali accusati di avere rivelato ripetutamente ad alcuni giornalisti atti coperti da segreto investigativo (che peraltro sarebbe l’aspetto di gran lunga meno grave di quanto emerso nel modo di gestire le indagini e soprattutto le intercettazioni, i cui verbali erano stati significativamente manipolati).
Se arrivati a questo punto sentite di esservi persi, e avete solo la sgradevole impressione di essere le vittime collaterali di una interminabile guerra per bande tra diverse correnti della politica, del giornalismo, della magistratura e dei servizi, direi che avete colto il punto essenziale. Ma nemmeno questa, purtroppo, è una novità.
Questo è un estratto di “La Linea” la newsletter de Linkiesta curata da Francesco Cundari per orientarsi nel gran guazzabuglio della politica e della vita, tutte le mattine – dal lunedì al venerdì – alle sette. Più o meno. Qui per iscriversi.