Sincerità proibitaLa letteratura dell’inconfessabile e gli appunti che diventano romanzi

La ventiduesima puntata del romanzo in corso di Pasquale Panella, opera di cui non sa nulla, neanche il titolo: «Non si scrive che per questo: per testimoniare a chi viene dopo di noi, ossia a noi stessi qualche tempo dopo, che noi fummo fantasia, immaginazione»

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E se tutti i libri fossero appunti? Appunti che l’umanità prende su sé stessa. Promemoria, ricordi, stupori, trappole per il tempo che vola (siamo bracconieri con le reti tirate su tra gli alberi, ci piace vedere i nostri momenti piumati e variamente colorati dimenarsi, contorcersi, ci piace catturarli per vederli svolazzare di rigo in rigo e per sentirli cantare in quelle gabbiette e voliere che sono i nostri diari, i nostri annali, la nostra vita romanzo).

A che serve un appunto, a che serve una nota? A fermare qualcosa, a irretire nella sintassi una osservazione, un pensiero (mi sfugge sempre cosa mai contenga questa parola che mi sembra sempre una borsa a rete rigonfia e mi sfugge sempre di che), addirittura un intero paesaggio, un atto perfino, un gesto, anche un guizzo (non pare ma gli appunti, quindi i romanzi, sono pieni di guizzi, sono pieni di rapidi gesti, soprattutto improvvisi; chi scrive si riconosce dai tic, quegli scatti, quegli spostamenti da calabrone sopra campi coltivati a parole, quei voli spezzati e tesi alla cattura di tic altrui, di mimiche su corolle di visi e su steli di corpi: nasi si arricciano, occhi si accigliano, sopraccigli si aggrottano, fronti si corrugano, labbra si increspano, pupille roteano, si scrollano spalle…).

Non si scrive che per questo: per testimoniare a chi viene dopo di noi, ossia a noi stessi qualche tempo dopo, che noi fummo fantasia, immaginazione. Reale è solo l’impaginazione, la tipografia e, prima ancora, l’asfissiante correzione delle bozze. La stampa è reale, l’assillante pressa ai suoi tempi (che, è noto, nacque perfezionando uno strumento di tortura), la distribuzione, la promozione, cose concrete. Reale è chi legge, non chi scrive né quel che è scritto, non sto rivelando niente di nuovo, è appunto tutto scritto (ecco l’appunto), basta leggere, carta canta (ecco la nota).

Gli appunti sono appunti, e anche i romanzi lo sono. In altre parole (praticamente le stesse) gli appunti diventano romanzi, che sono gli appunti da grandi, con più esperienza di pagine. Prendiamo nota per poi ricordare che tutto accadrà senza il peso di averlo vissuto sia come individui sia come umanità. Rileggiamo le guerre cruente (per estensione: la vita), gli squarci terribili (papaveri aperti qua e là nel campo di parole che ondeggiano ai venti), leggiamo addirittura a letto, il libro inclinato è uno scivolo verso il sonno, nel quale pullulano le forme di vita abissale della fantasia. Tutta fantasia, insomma, come ti giri ti giri, nel letto e fuori. Fantasia, la cosa della quale la realtà ha bisogno per tirare avanti, essendo la realtà un intralcio a sé stessa. Cosa c’è di più reale di un ostacolo? L’ostacolo seguente. La fantasia ci passa sopra, si sa, al massimo dopo tre tentativi.

E adesso una domanda. Che impressione fa, a voi così dediti al leggere, che impressione vi fa chi non legge nulla e, del nulla che non legge, preferibilmente non legge romanzi, per niente? Ditemi. È difficile, lo so, non lo dite, ma costei o costui che hanno a spregio i romanzi, io lo so che effetto vi fanno, vi fanno un grande effetto. Nel segreto dell’indicibile voi l’elevate a semidei e semidee, perché così vi paiono. Non va detto né si può dire, lo so. Così è, altro che storie. Quanto sono magnificamente sprezzanti, che bello sdegno, che eretta alterigia, hanno coraggio, cosa sanno? Non tengono in nessun conto il rigo. Cosa nascondono? Invidiabili davvero. Venere s’è mai vista con un romanzetto in mano? Minerva, per dire. E Mercurio, che portava la posta, ha mai letto qualche lettera? Mai sentito. Altro che semidei, erano dee e dei, non leggevano romanzi (perché parlo al passato? Perché forse solo loro vissero realmente?). Figure così, che non leggono romanzi, intimoriscono. Tutto questo è inconfessabile, però.

E ecco che tutto questo mi dà l’estro… Scrivere è non scrivere. Sai, infatti, quale letteratura mi interesserebbe? (A chi sto parlando?). La letteratura dell’inconfessabile. Penso a quelle frasi non scritte o scritte su fogli accartocciati, anzi no, strappati, no, meglio, bruciati (i portavasi di rame martellato sono ottimi crateri, chi pratica quest’arte privativa lo sa, sono inceneritori, ma non si dice: quante possibilità d’uso vengono taciute perché l’umanità possa dedicarsi all’allevamento o alla coltivazione di qualche segreto). È la letteratura della quale non si parla.

Sto venendo meno a una consegna? (Ne sto parlando? A chi?). Ci giro solo intorno, mi muovo ai margini, ai limiti del foglio. Non ti preoccupare, umanità, non dico tutto (sto parlando all’umanità, ecco a chi sto parlando, e non è strano e non è maestoso: sai di parlare all’umanità quando parli di cose minime, irrilevanti, ma che fortemente, tenacemente, enormemente esistono, per esempio quella specie di lanetta polverosa che si acquatta nell’angolo più acuto e sprofondato di una tasca: quel pizzico di materia è il centro del mondo, forse il nido, la cova, l’origine di un altro universo, è noto, si sa).

Sincerità: termine che forse non designa niente. Già non è mai spontanea la sincerità ma di difficile elaborazione. Vuoi esprimerti sinceramente? Devi deciderlo. Ti devi forzare. Devi cercare e trovare le parole, due attività che ti distanziano dalla sincerità. No, non mi sono allontanato dai bordi del foglio, lo sto osservando. È bianco, chi vuole scrivere qualcosa? Scrivi, nessuno ti guarda, io nemmeno. Sono impegnato, vedi, a imparare a scrivere di mio. Ti dico subito in cosa consiste l’esperimento: sei nella tua solitudine, all’interno della solitudine, godi della sua e della tua protezione, ecco, scrivi, ti esorto, prendi il tuo appunto, puoi dire tutto. È vero o no che invece non puoi, non possiamo? Dire tutto, intendo. A parte che il tutto vallo a conoscere e vallo poi a dire, è troppo vasto. A parte questo, quanta sincerità (se mai esiste) sai metterci? Che dici? Che a dirle sinceramente le cose sarebbero troppe cose, troppe parole, troppe frasi, incomprensibili anche. Credi? O, a pensarci bene, poche cose, pochissime parole, una breve falsità cantabile. Oppure decidiamo che vuoi sfogarla tutta la tua sincerità, inclinare il piano, farla correre e scorrere, permettimi di usare questa espressione: all’impazzata (mi concedo alla trivialità espressiva). I due piani più sdrucciolevoli e lubrichi? Erotismo e confessione, insomma le sconcezze.

Ecco, hai davanti il foglio, vai. Ho sentito quel fremito nel fogliame, quel brivido che percorre una tiepida calma (la stessa calma delle siepi e di chi legge) quando un vento che non c’era arriva come un grosso animale nuvoloso e restio ma costretto a trascinare una pioggia inattesa e riluttante (è una scena in cui tutto recalcitra, tra poco anche tu). Il brivido mi fa capire che sai di che parlo, ma sì, è cosa umana, Qui si va sul difficile, lo so. Non è facile a dirsi. No, non sto parlando della qualità dell’appunto, della frase o delle frasi che andrai a stendere, anche qualche disegnino, sì, lo so, osé.

L’impeto c’è tutto, la veemenza, anche il furore, una certa passione, e questa consapevolezza: che è con tutto il corpo che si scrive. E c’è la volontà, anzi proprio la voglia di spingere all’estremo le parole nell’atto estremo di confessare a sé, di non risparmiare in smodatezza, nemmeno in indecenza. State sbavando (quanti siete?), come no, l’eccesso non vi basta (mi pare di vedervi). State facendo tremare le foglie. Ma dire tutto, proprio tutto, parlando di voi, non d’altri, di voi, di voi e della vostra fame e dei vostri balzi voraci, non vi riesce. Sì, state anche schiumando direi, è la schiuma della parodia sulla quale è facile scivolare (si è parodici se non si può essere sinceri). Vi imbarazzate di essere voi, e ecco che, se state scrivendo su un foglietto di carta, bucate collerici la pagina, ci fate sopra uno o più freghi (questo termine, altro sfizio che mi tolgo, anzi che aggiungo), e dilaniate la carta e le frasette terrorizzate.

Se scrivete una nota al computer vi date a diteggiare a caso sui tasti, anche strusciando il dito, anche con tutte le dita di tutte e due le mani, suonate arditissimi accordi d’orde di segni casuali, di comandi distruttivi. Occultate. Vi stavate spiando, che sensazione spiacevole di rettitudine moralistica in voi. Insospettata, eh? È il pudore che vince. Per quanto vi diate licenza, davanti a un attacco di frase che apre a luminosi slarghi sguaiati, davanti a un accenno di disegno promettente lo scandalo, davanti all’impudenza, ecco, vi ritraete, accartocciate, strappate, cancellate, anzi di più. Il segno che vorreste lasciare è uno sbrego (altra parola sfiziosa; oggi è giornata), forse uno sfregio.

Che leggerezza guadagnano i fogli bruciati nel cratere, in quale morbida, tiepida, fragile oscurità si consumano, la stessa nella quale si avvolgono i nostri piaceri appagati per riposare un po’. La sincerità è proibita più delle cose proibite.

(22 Continua)

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