Le elezioni amministrative di questo fine settimana sono l’appuntamento clou della politica turca nel 2024. In ballo ci sono le due città più importanti: Istanbul e Ankara. Sebbene in un election year così intasato possano sembrare un evento di secondo piano, queste consultazioni potrebbero spianare la strada verso sostanziosi cambiamenti in Turchia. Innanzitutto perché il presidente Recep Tayyip Erdogan ha annunciato nei giorni scorsi che quelle del 31 marzo potrebbero essere le sue ultime elezioni amministrative, suggerendo tra le righe che il momento di lasciare la leadershi potrebbe essere vicino.
Anche lo scorso anno, prima delle elezioni generali, Erdogan aveva ricordato di essere di fronte all’ultimo mandato (per la verità, a rigor di legge, il suo ultimo mandato avrebbe dovuto essere quello precedente). Stavolta ha dichiarato: «Questa è una finale per me. Il risultato che emergerà sarà un lascito ai fratelli che verranno dopo». Un lascito che secondo il leader turco potrebbe passare da una nuova riforma costituzionale, che Erdogan ha più volte menzionato negli ultimi mesi, traendo spunto da una disputa tra la Corte di Cassazione e la Corte Costituzionale. L’obiettivo della riforma dovrebbe essere un grande classico dell’erdoganismo: accentrare maggior potere, in questo caso consolidando la presa sul sistema giudiziario.
In passato, Erdogan ha descritto la democrazia come «simile a un tram. Ci si sale finché non si arriva a destinazione, poi si scende», un detto che sembra perfetto anche per questa situazione, nonostante risalga agli anni Novanta, quando era sindaco di Istanbul. Proprio dalla carica di primo cittadino è partita la sua ascesa al potere ed è interessante come il voto nella sua città possa chiudere il cerchio nella last dance del sultano turco. Rispetto all’epoca in cui Erdogan era primo cittadino, oltretutto, le metropoli turche e i loro leader hanno guadagnato importanza. I sindaci svolgono un ruolo chiave sulla scena globale, promuovendo relazioni dirette con le controparti di altre città e nazioni.
Una vittoria a Istanbul fa gola al presidente sia per motivi politici che affettivi. La città vale un terzo della produzione economica turca e i suoi progetti immobiliari e di rinnovamento urbano generano grandi quantità di denaro, che Erdogan vorrebbe offrire ai suoi sostenitori e alle imprese che lo appoggiano. Nonostante le enormi problematiche economiche dell’esecutivo (l’inflazione effettiva per i consumatori si attesta intorno al centoventi per cento su base annua!), l’alleanza guidata dal Partito della giustizia e dello sviluppo (o Akp) di Erdogan è testa a testa per la vittoria, dopo aver perso durante l’ultima tornata elettorale nel 2019.
Cinque anni fa, a Istanbul l’Akp aveva perso per mano di Ekrem Imamoglu, rappresentante dell’opposizione del Partito popolare repubblicano (Chp) erede del kemalismo, nonostante l’ostruzionismo di Erdogan, che lo aveva costretto a vincere due volte per conquistare la carica. Oggi, Imamoglu cerca una rielezione che potrebbe essere dirimente anche per il suo futuro politico: una vittoria potrebbe portarlo alla guida dell’opposizione nelle presidenziali del 2028, ripercorrendo l’iter politico dello stesso Erdogan.
Imamoglu era in rampa di lancio anche nelle presidenziali dello scorso anno, prima che il leader del Chp Kemal Kilicdaroglu imponesse la sua candidatura (poi fallimentare); oggi è l’unico candidato credibile dell’opposizione. Il nuovo segretario del Chp, Ozgur Ozel, che ha destituito Kilicdaroglu come leader del partito lo scorso novembre, ha già detto di essere pronto a candidare Imamoglu in caso di rielezione a Istanbul.
Nonostante questo, le cose per Imamoglu sembrano essersi complicate, come hanno confermato i sondaggi in queste settimane, e gran parte delle responsabilità sono da rintracciare proprio nei ranghi dell’opposizione. Debolezza, inconsistenza e litigiosità hanno danneggiato la coalizione anti-Erdogan in maniera indelebile durante questa corsa elettorale; un ulteriore scoglio dovrebbe essere il voto della comunità curda, che rispetto alle recenti tornate sembra aver abbandonato il progetto politico del Chp, cercando per bocca di uno dei suoi leader, Selahattin Demirtas, uno status di «terzo polo», equidistante tra i due contendenti, ma disponibile a trattare con Erdogan se necessario.
Proprio per questo motivo il Dem, il Partito per l’uguaglianza e la democrazia curdo, ha presentato un tandem di candidati a Istanbul, a differenza di quanto fatto nel 2019. Gli elettori curdi sono stati una chiave della vittoria di Imamoglu cinque anni fa: Istanbul ospita la più grande comunità curda in Turchia, pari a circa due milioni, il dodici percento della popolazione cittadina. I curdi oggi sembrano scottati dal sostegno prestato nel 2023 a Kilicdaroglu, di cui non hanno mai digerito l’inclinazione verso destra e alcune prese di posizione ostili verso i loro rappresentanti; inoltre, il Chp in questo momento non dà un’immagine di concretezza ed è alle prese con conflitti interni, stimolati anche dalla svolta progressista della segreteria di Ozel.
Dall’altra parte, Erdogan sembra più saldo che mai, grazie a un controllo dell’ecosistema mediatico che gli permette di attenuare in gran parte le problematiche di governance dell’Akp: i prezzi degli affitti sono fuori controllo ma i media raccontano la produzione del primo jet da combattimento turco e il suo volo inaugurale. Secondo i calcoli riportati dall’Associated Press, l’emittente statale Trt avrebbe dedicato trentadue ore di trasmissione al partito al potere nei primi quaranta giorni di campagna elettorale, rispetto ai venticinque minuti dedicati all’opposizione.
Per sfidare Imamoglu, Erdogan ha scelto l’ex ministro dell’Ambiente Murat Kurum, sostenendo la sua candidatura in prima persona: a giudicare dall’impegno profuso dal presidente turco, vendicare la sconfitta del 2019 assume un significato che va ben oltre l’amministrazione di Istanbul. Se Kurum riuscirà a imporsi, l’elettorato potrebbe concludere che Erdogan abbia vinto le elezioni, anche se i suoi candidati dovessero fallire in altre grandi città (cosa piuttosto probabile, dato che ad Ankara l’opposizione sembra in vantaggio).
Un successo potrebbe avere ricadute enormi sulla postura nazionale e internazionale di Erdogan, permettendogli di consolidare ulteriormente la sua legacy politica. Come hanno evidenziato le analiste turche Sinem Adar e Hürcan Asli Aksoy, «le conseguenze politiche, economiche ed emotive di una vittoria dell’Akp sosterrebbero l’obiettivo di Erdoğan di consolidare il sistema presidenziale turco e il suo potere in esso».
Secondo altri osservatori, potrebbe addirittura intervenire sul limite dei mandati, che attualmente ha messo in stand-by sfruttando un cavillo, e ricandidarsi nuovamente nel 2028, a dispetto delle sue parole; più probabilmente, una sua vittoria potrebbe tradursi in una questione esistenziale per l’opposizione, che perdendo Istanbul dovrebbe rassegnarsi ad abbandonare la sua roccaforte politica e il suo possibile frontrunner per il 2028. Allo stesso tempo, Erdogan potrebbe dare vita a una nuova evoluzione della sua leadership, presentandosi come un «federatore» del popolo turco in questa parte finale di carriera e smussare le parti più accese della sua retorica: risolvere la questione curda sarebbe la ciliegina sulla torta, forse il famoso «lascito» di cui parla il presidente.