Garantisti per DanielaChiedere le dimissioni di un’indagata non è colpevolismo giustizialista

La critica della destra alla sfiducia per la ministra Santanchè è una conseguenza della confusione tra giustizia e politica. Una di quelle cose che abbiamo ereditato dalla Seconda Repubblica

Guido Galamosca/LaPresse

Quest’idea che, di per sé e a prescindere da ogni circostanza di diritto o di fatto, le richieste di dimissioni per ministri e parlamentari indagati siano un cedimento al colpevolismo giustizialista – la questione si riproporrà quest’oggi a proposito del voto di sfiducia alla Camera contro Daniela Santanchè – è uno dei tanti effetti collaterali della perniciosa confusione tra giustizia e politica, che è il peccato originale della Seconda Repubblica.

In principio fu Tangentopoli, con la sua pretesa eversiva di bonificare il sistema dei partiti dal malaffare conferendo a quel pezzo “non terzo” del potere giudiziario – la magistratura inquirente – un ruolo analogo a quello che nella teocrazia iraniana spetta il Consiglio dei Guardiani, cioè la sovrintendenza sulla moralità delle leggi e dei legislatori.

Di quella retorica, come si tende a dimenticare, le tv berlusconiane furono palcoscenico e grancassa e la coalizione berlusconiana la prima usufruttuaria (con la vittoria del ’94, a seguito della quale si sarebbe dovuto inglobare Di Pietro e il suo consenso nel nuovo Governo) e presto la nuova vittima, appena diede l’impressione di alzare troppo la cresta.

Solo quest’ultima parte della storia è quella che a destra si ricorda e si riscrive come un’epopea di eroica resistenza civile al giustizialismo (che peraltro la destra italiana continua da allora a praticare, con inclinazioni sempre più violente e razziste contro il nemico di turno) ed era invece uno scontro tra poteri – i magistrati di Milano e il Cavaliere di Arcore – diversamente alieni dall’abc della cultura del diritto liberale e ugualmente infoiati dalla prospettiva di usare la legislazione e la giurisdizione penale come santo manganello e presidio della salute della Repubblica.

L’esito di questa deriva ha portato a un doppio paradosso: quello di un panpenalismo infestante sul piano legislativo (a cui anche la sinistra ha portato il suo poderoso contributo) e di un disarmo politico-intellettuale pressoché completo e quasi orgiastico rispetto alle questioni di etica pubblica (a cui anche la sinistra ha fornito ben più di un alibi, come dimostra l’indecorosa guapperia di molti suoi cacicchi, alla Vincenzo De Luca e Michele Emiliano).

Le norme penali sono diventate il solo compendio delle virtù repubblicane e il certificato dei carichi pendenti e il casellario giudiziale sono rimaste le sole bussole per orientarsi nel giudizio sulla dignità e sull’onore politico di parlamentari e ministri. Questo feticismo per il penale ha avuto le ricadute mediatiche che conosciamo, con un mercato secondario di spiate e veline che è il core business della stampa che conta, ma ha avuto soprattutto una conseguenza che nelle lande cosiddette garantiste colpevolmente disconosciamo, cioè la derubricazione di ogni questione di moralità e onorabilità politica a sottoprodotto delle pronunce giurisdizionali.

In ragione di ciò, per ogni inchiesta è autorizzata un’ordalia o uno scotennamento a reti unificate, ma allo stesso modo, in senso inverso, per la pendenza di un’imputazione, o ancora meglio per un proscioglimento o una assoluzione, è rivendicata una speciale garanzia di immunità dal giudizio etico-politico. “Tu sei indagato e quindi sei un poco di buono, ma io sono innocente e quindi nessuno mi può giudicare”.

A oscillare tra l’una e l’altra posizione per lo più non sono soggetti diversi, ma gli stessi, sempre pronti a evocare la forca per gli altri e a esigere una particolare dispensa per sé e per i compagni di fazione.

A Bari, per fare l’esempio più recente, la destra ha chiesto lo scioglimento del Comune a causa di un’inchiesta su episodi di corruzione elettorale e voto di scambio politico-mafioso, per cui sono imputate due elette dell’opposizione, poi però passate alla maggioranza di sinistra e quindi agevolmente additabili come pietre dello scandalo.

Nondimeno la stessa destra, nelle stesse ore difende dalla richiesta di dimissioni Daniela Santanchè perché gli addebiti politici che le sono mossi sono impacchettati in un più vasto dossier di addebiti giudiziari e allora la sua stessa condizione politica si presume assistita (perché è “dei nostri”, ovviamente), da una riserva di intoccabilità. Fino a che i giudici non si pronunceranno sull’eventuale qualificazione penale della marea di balle che ha raccontato al Parlamento e dei certificati magheggi finanziari che la sua impresa faceva con l’Inps, con l’erario e coi dipendenti chiedere che si dimetta non viene considerato inopportuno, ma sostanzialmente indebito: in una parola, “giustizialista”.

Sia chiaro: è del tutto legittimo ritenere che quel che si sa di Visibilia e delle responsabilità di Santanchè, al di là del rilievo penale che sarà o meno riconosciuto alle sue condotte, sia inidoneo o insufficiente per giudicarla immeritevole della posizione che occupa. È invece completamente irrazionale, quando non tartufesco, sostenere che una questione etico-politica a carico di una persona indagata acquisti rilievo solo quando riceve una definitiva sanzione giudiziaria.

Il rifiuto di sovrapporre o confondere i piani del giudizio sull’onorabilità di un ministro e della sua colpevolezza dovrebbe essere pacifico in un Paese in cui la responsabilità penale e quella politica sono considerate diverse e non la seconda una parte della prima. Ma l’Italia evidentemente non è ancora, se mai sarà, quel Paese.

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