Il fallimento delle trattative per la formazione del governo in Bulgaria apre la strada ad una fase d’instabilità nella nazione balcanica che è dovuta ricorrere per ben cinque volte alle elezioni nel corso degli ultimi tre anni. I colloqui tra il partito conservatore Gerb, guidato dall’ex Commissaria europea Marija Gabriel e la coalizione europeista anticorruzione Continuiamo il cambiamento-Bulgaria democratica (Pp-dB) – capeggiata dal Primo Ministro uscente Nikolai Denkov – sono andati a monte a causa dei disaccordi in materia di nomine ministeriali. Gerb e Pp-dB facevano parte dell’esecutivo uscente, nato grazie alle consultazioni dell’aprile 2023. Uno degli accordi tra i partiti prevedeva una rotazione al vertice dopo nove mesi, con Denkov che avrebbe dovuto lasciare il posto a Gabriel, sua vice nonché Ministra degli esteri.
L’insuccesso dei colloqui concretizza lo spettro di un nuovo voto anticipato, a meno che il presidente Rumen Radev, esponente del Partito socialista, non trovi una soluzione a questo ginepraio. Radev, ex generale dell’Aeronautica, è politicamente vicino a Mosca, come testimoniano alcune sue dichiarazioni degli ultimi anni. A dicembre 2022, per esempio, ha minacciato di porre il veto a un nuovo pacchetto di sanzioni comunitarie verso la Russia. A febbraio 2023, pur avendo condannato l’aggressione russa a Kyjiv, ha poi ribadito il suo essere all’invio di qualsivoglia aiuto militare all’Ucraina. Nello stesso mese, come riportato dal media bulgaro Mediapool, ha inoltre incontrato il Primo Ministro ungherese Viktor Orban. Una riunione con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, tenutosi a settembre 2023, si era invece concluso con una serie di incomprensioni.
Il caso Radev è esemplificativo della situazione geopolitica complessa in cui si trova la Bulgaria. Qui una parte non trascurabile della popolazione, così come alcuni partiti politici, spinge per stringere i rapporti con la Russia. Altri guardano invece con simpatia a Bruxelles e Washington. Tra i movimenti più vicini al Cremlino figura il Partito socialista (Psb), guidato da Kornelia Ninova, che lo scorso novembre ha annunciato la formazione di un’alleanza con i partiti nazionalisti filorussi. Ninova è intervenuta anche sul programma elettorale del partito, sempre più lontano dagli ideali progressisti e dalla galassia socialdemocratica di Bruxelles. Tra gli altri schieramenti spiccano il movimento Vazrazhdane, euroscettico e favorevole a un referendum sull’uscita dall’Alleanza Atlantica, il movimento Ataka e i Russofili per il revival della Patria, il cui leader è a processo per spionaggio a favore degli oligarchi russi.
Solo una piccola parte della popolazione appoggia questi partiti. La maggior parte, invece, ha iniziato a mettere in discussione gli stretti rapporti con Mosca dopo lo scoppio della guerra in Ucraina. L’opinione pubblica bulgara, secondo un recente sondaggio pubblicato su Euractiv, ha un’opinione critica verso il presidente Vladimir Putin.
Il sessantadue per cento dei cittadini lo giudica negativamente, e solamente il venti per cento ne ha un’opinione positiva. Il cinquantacinque per cento dei partecipanti al sondaggio ha inoltre dichiarato che, a loro parere, le elezioni in Russia non sono state libere e democratiche, un altro venti per cento aveva un’opinione opposta e il restante ventidue per cento aveva preferito non esprimersi. Si tratta di un mutamento significativo per una delle nazioni che, fino ad alcuni anni fa, era considerata molto vicina al Cremlino e che è soggetta alle campagne di disinformazione provenienti dalla Federazione.
La Bulgaria ha inoltre cercato di ridurre la sua dipendenza energetica dalla Russia. Mosca, sino allo scoppio della guerra in Ucraina, forniva il novanta per cento del fabbisogno di gas naturale del Paese. Ma gli accordi con Gazprom sono collassati dopo il rifiuto da parte di Sofia di pagare le forniture in rubli e non in dollari. La Bulgaria ha allora stipulato accordi con una serie di fornitori alternativi come Grecia e Turchia e, sebbene sia possibile che un certo quantitativo di gas russo continui ad arrivare indirettamente a Sofia proprio attraverso questi fornitori, la diversificazione energetica è stata ultimata.
Le autorità di Sofia hanno inoltre annunciato, come riportato da Politico, la firma di un accordo per l’importazione di combustile nucleare americano in sostituzione a quello russo per garantire il funzionamento dell’unico impianto del Paese. Il fornitore statunitense ha dichiarato che aiuterà il governo bulgaro a costruire due nuovi reattori per un totale di quattordici miliardi di dollari. Risultati altrettanto positivi non sono invece stati raggiunti nel settore petrolifero.
La raffineria Neftochim, sotto il controllo della Lukoil, dipende quasi al cento per cento dalle importazioni russe che sono cresciute, grazie ad un’esenzione dalle sanzioni, fino a trasformare la Bulgaria nel quarto maggiore importatore al mondo di oro nero moscovita. Il destino dell’impianto è stato oggetto di un serrato dibattito tra il Gerb, favorevole a un atteggiamento più duro nei confronti di Mosca, e il Pp-dB, più cauto a causa delle possibili ricadute sul mercato interno di una linea dura.
Il rischio è che l’attuale instabilità politica possa vanificare i risultati ottenuti da Sofia per quanto riguarda il distanziamento dalla Russia, consentendo così una nuova e più efficace penetrazione da parte di Mosca nel Paese. La compattezza del fronte euro-atlantico, in particolare modo in Europa centrale e orientale, dove Ungheria e Slovacchia sono vicine al Cremlino, è fondamentale per preservare aiuti e supporto a un’Ucraina sempre più in difficoltà. Lo scacchiere regionale, oggetto di interessi contrapposti da Bruxelles e Mosca, è oggetto di forti pressioni. Possibili mutamenti interni rischiano quindi di alterare il quadro complessivo, sbilanciandolo a favore di uno dei due contendenti.