Hakan Fidan, è un uomo di provata intelligence oltre che il ministro degli Esteri della Turchia. Ma soprattutto è la carta che il presidente Recep Tayyip Erdogan si sta giocando per rispondere sia alla richiesta americana di una efficace mediazione nel conflitto israelo-palestinese, sia all’accusa interna di aver fatto troppo poco per Gaza, portando così il suo partito, l’Akp, a un tracollo elettorale.
Fidan è appena rientrato dal Qatar dove ha avuto un faccia a faccia con leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh. Quello tra il capo della diplomazia di Ankara e il numero uno dell’organizzazione che comanda in Palestina è stato un vertice semi-segreto perché molto delicato: secondo i media israeliani, dall’incontro ci si attende una sorta di passaggio di testimone del ruolo di mediazione tra Israele e Hamas. Il Qatar starebbe infatti per sfilarsi, nonostante la diplomazia di Doha sia stata sempre in prima linea nella ricerca di un dialogo mirato alla liberazione dei 133 ostaggi israeliani prigionieri nella Striscia di Gaza dal 7 ottobre scorso.
Nel complesso puzzle mediorientale, le tessere combaciano: era appena stata annunciata la prossima visita in Turchia di Haniyeh, che sabato 20 aprile sarà ricevuto da Erdogan. Un nuovo tavolo quindi per Ankara, che intende affrontare il tema dell’ingresso a Gaza degli aiuti umanitari, ma anche quelli altrettanto spinosi del cessate il fuoco e della forte tensione con l’Iran. Ormai non passa giorno senza che Erdogan ribadisca pubblicamente il sostegno ad Hamas, che lui definisce “movimento di liberazione” e che ama paragonare alle formazioni che hanno lottato per l’indipendenza turca contro Gran Bretagna e Grecia nei primi decenni del Novecento.
Il governo turco sta dunque cercando di rinvigorire e intensificare i contatti con Hamas. Se è vero che Erdogan ospita sul proprio territorio alcuni leader del movimento e, a parole, disprezza la posizione degli Stati Uniti e dell’Unione europea, è anche vero che una larga fetta della popolazione turca lo sta accusando di indifferenza verso il popolo palestinese o, peggio, di aver svenduto Gaza in cambio dei soldi israeliani. Un malcontento che non arriva dalle opposizioni ma dalla base di Akp, partito che ha l’imprinting inequivocabile del presidente. La consapevolezza che le feroci accuse a Benjamin Netanyahu, definito ogni volta un carnefice sul modello di Hitler e Stalin, responsabile di crimini contro l’umanità, di genocidio e di aver provocato la reazione iraniana, non erano più sufficienti a tranquillizzare i suoi elettori, si è presentata con il tracollo alle elezioni locali. Da quel momento la strategia di Erdogan, affidata a Fidan e al capo dei servizi segreti si è manifestata con inviti e telefonate. Dalle condoglianze pubbliche al leader di Hamas per i suoi tre figli, colpiti da un bombardamento a Gaza fino alla ripresa quotidiana dei contatti con gli elementi chiave dell’organizzazione, il leader turco vuole apparire ai media concreto e determinato e si è quindi prodotto in una dichiarazione definitiva: «Combatterò per la causa palestinese e sarò la voce della popolazione oppressa anche se dovessi rimanere l’unico a farlo».
Ma è evidentemente tornata anche la tipica abilità mediorientale di giocare su più tavoli. E la scorsa settimana, prima attraverso il Segretario di Stato Antony Blinken, e, dopo l’attacco iraniano, tramite il capo della Cia William Burns, gli Stati Uniti hanno chiesto al governo di Ankara di aiutare fattivamente a evitare l’escalation e hanno fissato a Erdogan un appuntamento alla Casa Bianca con Joe Biden per il prossimo il 9 maggio. Tra le carte utili nella manica del leader turco c’è anche il recente riavvicinamento di Ankara a Teheran. Un poker di possibili influenze sul quale la Casa Bianca punta molto. Dal canto suo Erdogan ha l’occasione di riguadagnare popolarità interna, passando come l’uomo che può evitare al proprio Paese di essere implicato in un immane conflitto nella regione.