“Vino naturale vs vino convenzionale: e se vincesse il buon senso?”. Il talk su uno dei temi più dibattuti nel mondo dell’enogastronomia ha aperto Disquisito, la tre giorni di Torino per i dieci anni del Mercato Centrale. Guidati dalla direttrice di Linkiesta Gastronomika Anna Prandoni, ne hanno discusso Roberta Ceretto, Presidente di Ceretto Vini, Mateja Gravner, dell’Azienda agricola Gravner, Tamara Podversich, di DamIjan Podversic. Tutte rappresentanti di aziende pioniere nella tipologia di approccio al vino, a come va prodotto e commercializzato. Dal biologico al biodinamico. Insieme a loro, anche Andrea Moser, enologo di AMProject.
Roberta Ceretto, che produce vino biodinamico, ha invitato a non banalizzare le modalità di produzione, andando oltre gli slogan di chi definisce «stregoni» gli imprenditori che seguono le regole della biodinamica. «Chi viene da noi può vedere come lavoriamo e noi lavoriamo seguendo i dettami della teoria steineriana», ha spiegato Ceretto. «Diventa difficile raccontare cosa fai, il pubblico spesso non è informato e ti guarda stralunato».
In un mondo di etichette – tra vino «naturale«, «biologico», «biodinamico» – occorre fare ordine. «Il vino e la vigna sono un costrutto dell’uomo», ha spiegato Andrea Moser. «Possiamo cercare di tendere per un prodotto il più vicino possibile a quello che la natura fa, ma la natura non verrebbe mai in mente di mettere accanto 12mila piante uguali vicine. Se si lascia la vigna a sé stessa, nel tempo viene colonizzata da altre piante. Senza un uomo non c’è vino, quindi non lo chiamerei naturale. Lo chiamerei vino e basta. Si può fare bene il vino facendo molto poco in cantina e molto poco in campagna, ma quel poco bisogna farlo. E per fare meno, bisogna sapere di più».
Il segreto, allora, è andare «oltre le categorie», ha detto Mateja Gravner. «Deporre le armi» della contrapposizione tra le «scuole» di produzione del vino. «Dialogare, fare cultura del vino è meglio», ha aggiunto. «Abbiamo una chance all’anno, quindi dobbiamo giocarla molto bene».
Tamara Podversich ha raccontato la bellezza di vedere invecchiare le vigne, ma anche la capacità di guardare ben oltre il presente. «Ogni grande vignaiolo deve guardare tre-quattro generazioni avanti, proprio perché ogni annata ha la sua unicità», ha spiegato.
È quello che Andrea Moser ha chiamato «durabilità», la capacità di una produzione di essere sostenibile nel tempo, anche in un mondo che vive i cambiamenti climatici. È per questo, ha detto, che bisogna «prendere il buono da ogni tipo di conduzione che sia veramente durabile, al di là della modalità di produzione».