Anni VentiMatteotti consiglierebbe a Schlein di guardare alle forze riformiste

A cent’anni dalla morte del martire antifascista, la sinistra è ancora divisa, dimostrando di non aver imparato alcuna lezione dalla storia. Oggi il Partito democratico deve scegliere con chi allearsi, ma l’ex segretario del Partito socialista unitario non avrebbe dubbi su cosa fare

LaPresse

Tutti ne parlano, d’altronde è l’anno del centenario della morte: Giacomo Matteotti antifascista, il martire per antonomasia, il combattente coraggioso che non si piegò, l’unico ad aver intuito, fin dal 1921, che il fascismo aveva un’anima diversa da quella della reazione tout court, se avesse piantato radici non sarebbe stato estirpato. Aveva ragione, ma non lo ascoltarono che in pochi, una minoranza. Tuttavia Matteotti non fu solo l’uomo che si batté contro il Duce, fu un uomo politico, segretario del Partito socialista unitario, l’allievo prediletto di Filippo Turati e Anna Kuliscioff, l’erede di una visione politica in quegli anni attaccata da fascisti e comunisti. Cento anni dopo, una visione attuale con la quale l’Italia, la sinistra in particolare, dovrebbe fare i conti perché il futuro di Giorgia Meloni e di una destra radicale non abbiano la strada spianata.

Matteotti agì, fin dal gennaio del 1922, in pieno Governo Facta, per costruire una maggioranza parlamentare con popolari, repubblicani e liberali democratici che sbarrasse il passo a Mussolini. Vaticano e massimalisti si opposero e Benito divenne il Duce in un’Italia già pronta ad affidargli le redini del proprio destino.

La sinistra del tempo aveva tratti non del tutto dissimili dalla sinistra attuale: litigiosa, logorata da un cieco estremismo e dalla frattura, netta, tra riformisti e massimalisti. Una frattura che si è trascinata fino ai giorni nostri, prima nel duello tra comunisti e socialisti, poi nello scontro con movimenti che, tra gli anni Novanta del Novecento e l’inizio del nuovo secolo, hanno solcato la penisola, infine con l’esplosione elettorale del partito di Grillo. Lacerazioni, divisioni che nessun campo largo può contenere perché, ha ragione Veltroni, il punto non è la larghezza del campo ma ciò che vi si semina. E le sementi sono così diverse da apparire incompatibili, basta un qualsiasi accidente per appiccare il fuoco.

Bari, Torino, nella cornice di una questione morale agitata troppo spesso strumentalmente per trarne un vantaggio di parte, per accarezzare il pelo di un elettorato antipolitico che si sposta ora a destra ora a sinistra, come un metronomo. La costante ricerca di un accordo con i Cinquestelle rende Schlein prigioniera perché la costringe a orbitare attorno a temi divisivi nel cuore di una sinistra moderna, riformatrice, europea, sia in politica estera sia lungo il crinale delle politiche economiche: il jobs act può essere migliorato ma non va buttato alle ortiche, i superbonus edilizi vanno trattati con cautela, meglio il garantismo di un giustizialismo peloso, meglio, molto meglio gli Stati Uniti d’Europa di una Unione europea che naviga tra Stati sovrani e beghe regolamentari.

Sappiamo cos’è il partito di Conte. Più complicato è definire la natura del Partito democratico della Schlein. Matteotti, potessimo chiedergli consiglio, non avrebbe dubbi in proposito: guardare alle forze riformiste, isolare gli estremisti.

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