Anche nel corso del quattordicesimo secolo la maggioranza degli umanisti riteneva che il Buongoverno fosse un ricordo del passato e che la politica avesse perso credibilità. Si misero al lavoro e suggerirono interessanti proposte per rovesciare una situazione che trovavano insostenibile. Della partita fu anche Francesco Petrarca: attaccò con decisione gli scolastici, rei di immaginare soltanto un’educazione per pochi, autoreferenziale, quando c’era invece bisogno di creare una classe dirigente più larga, adeguata alle nuove forme di governo che le città libere iniziavano a sperimentare. Queste necessitavano virtù e ricorso alle discipline umanistiche per governare con profitto e saggezza la cosa pubblica. E oggi? Se scorro la lista dei suggerimenti impartiti settecento anni fa, non saprei cosa togliere.
Il punto di partenza era (ed è) sapersi esprimere in modo corretto. Poi veniva l’eloquenza: la capacità di convincere, di commuovere, di creare emozioni, di affascinare il pubblico non con argomenti speciosi, ma attingendo alla cultura, cosa che un uomo virtuoso è in grado di fare. Dovrebbe essere così anche nel tempo presente. Sì, una battuta ogni tanto va bene, il problema è quando barzellette e battute sopravanzano il resto, lo annichiliscono. Assolutamente vietate le offese, meglio il confronto diretto, meglio la qualità di ragionamenti sobri e comprensibili per spiegare questioni complesse anche a chi non è un pozzo di scienza.
Infine la Storia, cui si affidava il compito di trasmettere il sapere e soprattutto la prudenza, la capacità di prevedere gli eventi, di anticiparli, proprio la virtù principe in chi fa politica. Giuseppe De Rita ha definito questa capacità col termine “strabismo”: un occhio che guarda intorno a te, l’altro che punta deciso al futuro, capace di leggere oltre l’orizzonte. Insomma, una strategia, l’unico strumento che possa farti governare società complesse pur non essendo la Storia maestra di niente, nel senso che il passato può ripetersi, eccome.
A grammatica, eloquenza e storia aggiungerei il verbo “servire”. Servire una comunità, grande o piccola che sia, costituisce comunque un privilegio. Un privilegio che implica fatica, dedizione, rinunce, comunque un privilegio. Il privilegio di chi può incidere nella vita degli altri come il ceramista con l’argilla, ribaltando la sorte. Il privilegio, raro, di chi può coniugare il pensiero all’azione mettendo le gambe a un’idea. Il privilegio, infine, di rappresentare gli altri, magari ripudiando trasformismo e opportunismi. È tanto, capisco, ora che il presentismo è onnivoro e che l’uno vale uno è la legge, ma non c’è alternativa se non vuoi rinunciare alla democrazia dei bisnonni. Sempre meglio di quella di uomini e donne soli al comando.