La pandemia, ormai, è alle spalle. Gli italiani sono tornati a pranzare e cenare fuori, anche se sono più attenti al conto. E in tanti si sono pure rimessi in gioco, aprendo nuovi bar e ristoranti, nonostante le chiusure delle attività siano ancora maggiori delle aperture. Dopo un momento di grande difficoltà, secondo il nuovo Rapporto Ristorazione 2024 di Fipe Confcommercio, il 2023 sarà ricordato come un anno positivo per la ristorazione italiana, considerando che nove imprese su dieci hanno migliorato o confermato il fatturato dell’anno precedente e si aspettano un 2024 in crescita o, quantomeno, stabile.
Per le quasi 332mila imprese del comparto, lo scorso anno il fatturato è cresciuto del 13,6 per cento rispetto al 2022, ma per quasi la metà ha influito l’aumento dei prezzi sui menu dovuto all’incremento dei costi in cucina. E in effetti il settore non è ancora tornato ai livelli del periodo pre-Covid. «Emerge lo sforzo fatto dalle nostre imprese per tornare al punto di partenza, al 2019, dopo la ferita impressa dalla pandemia», spiega Luciano Sbraga, direttore del Centro Studi di Fipe. «Il Covid ha rallentato la foga a investire nel settore e a creare nuove attività. Ma questa non è necessariamente una cattiva notizia, se comporta un rafforzamento delle competenze e un aggiornamento dei format». E in un mercato caratterizzato dalla frammentazione e dalla piccola imprenditoria, qualcosa di nuovo comincia a scorgersi.
Certo, il tasso di natalità di nuovi bar e ristoranti, in quattro anni, è sceso dal 4,1 per cento al 3,1 per cento. Nel 2019 erano nate poco più di tredicimila nuove insegne, nel 2023 se ne sono aggiunte poco più di diecimila. Ma su 10.319 nuove attività avviate nel 2023, ben 28.012 l’hanno cessata, con un saldo negativo per 17.693 unità, per oltre un terzo concentrato nell’Italia del Nord.
Il turnover imprenditoriale, insomma, resta ancora elevato. Anzi, rispetto al 2022, lo scorso anno le imprese cessate sono aumentate proporzionalmente più delle iscritte. Nel 2023, sono stati aperti 6.205 ristoranti, ma 15.188 hanno chiuso. Va peggio per i bar: nel 2023 hanno avviato l’attività 3.937 imprese e 12.188 l’hanno cessata. Risultato: a livello nazionale, il settore ha perso cinque imprese ogni cento attive.
Il tasso di sopravvivenza delle imprese della ristorazione resta basso. Secondo i dati di Fipe, poche resistono a lungo. L’81 per cento delle aziende nate nel 2018 è ancora in attività nell’anno successivo. Questa percentuale cala del 15 per cento, arrivando intorno al 66 per cento dopo tre anni e al 54 per cento dopo cinque anni. Quindi, a cinque anni dalla nascita oltre quattro aziende su dieci hanno cessato l’attività. Nel caso delle ditte individuali, cinque ristoranti o bar su dieci cessano l’attività a cinque anni da quando sono state avviate. Le cose migliorano leggermente se la forma giuridica è una società di capitale o una società di persone.
«C’è ancora molta improvvisazione e poca consapevolezza delle difficoltà del nostro settore», ammette Lino Enrico Stoppani, presidente di Fipe. «Bisogna capire che ristoranti e bar sono imprese e che come tali vanno gestite, non basta saper fare un caffè o una pizza. L’alto tasso di turnover imprenditoriale nel nostro settore continua a rappresentare un punto di domanda rispetto alla qualità e alla professionalità di chi si dedica a questo mestiere».
Nonostante la ristorazione italiana abbia nella micro e piccola impresa il cardine del proprio tessuto imprenditoriale, la novità degli ultimi anni è la crescita significativa delle catene della ristorazione, dai fast food al sushi, che nel 2023 hanno raggiunto la soglia degli 11.500 punti vendita distribuiti sull’intero territorio nazionale (con una spiccata prevalenza al Nord).
A fianco di grandi player nazionali e internazionali, spiega il Rapporto Fipe, si stanno facendo spazio anche piccoli operatori nazionali che già contano oltre un terzo della rete. Sul mercato italiano ad oggi operano oltre 600 gruppi, che ormai coprono fino all’11 per cento dei consumi alimentari delle famiglie italiane, segnando quasi un raddoppio rispetto al 2011. Rispetto alla debolezza di tante imprese costrette a chiudere, le catene riescono a far leva su elevata dimensione e scalabilità per investire in marketing, offrire prezzi competitivi e adottare soluzioni digitali. Aspetti che, per giunta, hanno suscitato l’attenzione di numerosi investitori finanziari, tanto che nel periodo 2018-2022 si sono concluse 28 operazioni di fusione e acquisizione. Un esempio su tutti: “La Piadineria” è stata recentemente acquisita dal fondo Cvc Capital in un’operazione da 600 milioni di euro.
«Per rimanere competitivi sul mercato», spiega il Rapporto Fipe, «gli operatori indipendenti devono puntare su elementi differenzianti rispetto alle catene – atmosfera familiare, prodotti più personalizzati, interazione con il cliente più stretta. Molte persone affermano di scegliere i locali indipendenti proprio per la connessione autentica che riescono a stabilire con il personale».
Uno degli aspetti interessanti è che nel settore della ristorazione italiana il tasso di imprenditoria femminile, al 28,9 per cento, è superiore alla media. Con un 12,9 per cento di giovani under 35 che decidono di mettersi in proprio. E una quota del 13,8 per cento di imprese gestite da stranieri.
Al Sud, soprattutto, si registra la più alta l’incidenza delle imprese giovanili, in particolare in Campania (16,9 per cento) e Calabria (16,1 per cento), seguite dalla Sicilia con il 15,7 per cento. È la riprova di quanto il settore sia attrattivo tra i giovani proprio nelle aree del Paese dove è maggiore la difficoltà di trovare un lavoro. Ma questi dati nascondono anche il rischio di improvvisazione e di aperture «per necessità».
Anche perché poi, a cascata, imprese deboli creano lavoro debole e sottopagato, generando il Far West contrattuale e un’alta incidenza del nero. La Fipe ha ripreso i negoziati con i sindacati per l’atteso rinnovo del contratto del settore. Ma su quasi un milione e mezzo di addetti, il contratto sottoscritto dall’associazione è applicato su 600mila dipendenti. «C’è ancora un grosso dumping contrattuale. Esistono trentuno contratti di settore registrati al Cnel. A parte il nostro, gli altri trenta però applicano la teoria della sottrazione», dice Stoppani.
Eppure, nel 2023 l’occupazione del settore è cresciuta del 8,5 per cento tra i dipendenti e del 5,3 per cento tra gli autonomi. Molti nuovi contratti, oltre 40mila, sono a tempo determinato, ma si registrano anche 11.200 nuovi contratti a tempo indeterminato. Con una forte presenza di donne (+ 33.800) e giovani under 30 (+14.100).
E questo nonostante ancora il 70 per cento delle imprese lamenti la difficoltà di trovare personale. In vista dell’estate, si cercano soprattutto personale di sala, cuochi e barman. Tanto che per la prima volta, su spinta proprio di Fipe, il decreto flussi per i lavoratori immigrati ha destinato le quote di riserva anche al settore della ristorazione. E le richieste sono state altissime. «Se gli italiani hanno abbandonato questi mestieri, dobbiamo trovare un’alternativa con i lavoratori stranieri», dice Stoppani.