«Unica vera impressione sta che si debba fare tutto diverso – Stop – Tutto da capo – Stop – Qualunque cosa ma che non sia stata fatta mai prima – Stop – Abbraccio – Luchino». Visconti, che è a Venezia a fare il giurato d’un’edizione del festival che gli fa schifo, lo scrive in un telegramma a Suso Cecchi D’Amico a settembre del 1956.
Il telegramma sta nel miglior libro di questo periodo – periodo che pure è pieno di libri nuovi piuttosto fighi – l’epistolario di Luchino Visconti tra il 1920 e il 1961 appena pubblicato dalla Cineteca di Bologna (Bologna ha fatto anche cose buone: ora sbrigatevi a darci le lettere dal 1962).
Negli ultimi due giorni l’ho declamato esasperata, il telegramma, di fronte a tutto. All’idea che Scorsese voglia fare un film su Frank Sinatra, e Ava Gardner la interpreti Jennifer Lawrence (i film coi sosia sono una disgrazia contemporanea, ma prendere quella che meno somiglia a Ava Gardner nella storia del cinema: Martin, sei proprio sicuro?).
Alla notizia che Paolo Genovese e Francesco Piccolo abbiano scritto un film sul triangolo Bergman/Rossellini/Magnani (un triangolo in cui l’elemento più interessante è la quarta, Marcella De Marchis Rossellini). Come già lo vedessi: Favino che fa Rossellini, la Impacciatore che fa la Magnani.
Soprattutto, all’uscita dal cinema dove ho visto “Challengers”, che credo d’aver trovato così scarso non solo perché ormai è impossibile non dire «tutto qui?» vedendo qualcosa non in anteprima: se un film lo vedi a recensioni già uscite, con la disinvoltura con cui ormai si spende l’attribuzione di «capolavoro», non ti sembrerà mai all’altezza.
Credo però che la mia delusione per questo “Conoscenza carnale” in sessantaquattresimo venga, appunto, dal suo essere un “Conoscenza carnale” in sessantaquattresimo. Non solo privo di Jack Nicholson, ma pure della scena in cui la partita di tennis era vista da un’inquadratura di Candice Bergen che girava la testa per seguire il gioco. Altro che il punto di vista della pallina per cui si strizzano le mutande gli estimatori di Guadagnino.
Però c’è un problema, anzi due, in questa mia valutazione. Il primo lo scrivevo già due anni fa: «Tizio è il nuovo Caio» non è una categoria critica. È un tragico segno della nostra pigrizia intellettuale, ma non è un’analisi accettabile. Se tutto quel che hai da dire su Guadagnino è che non è Mike Nichols, forse su Guadagnino devi tacere finché non ti procuri degli argomenti meno scemi.
L’altro è che, quando Luchino scriveva a Suso che bisognava fare cose mai fatte prima, il cinema esisteva da tre quarti d’ora, il pop da tre minuti, essere originali era facilissimo perché praticamente non c’era passato. La ragione per cui Visconti non pensava a fare un film su Sinatra non era che aveva più idee di Scorsese: è che un Sinatra nella sua gioventù non c’era stato (c’erano stati i russi non molto prima, diciamo che i russi stavano a Visconti e Cecchi D’Amico come Sinatra a me, e infatti poi l’idea che i due cercavano quell’estate divenne “Le notti bianche”).
Il vantaggio di essere i primi e creare il canone è che nessuno ti dice che sembri qualcos’altro, nessuno resta deluso facendo paragoni, nessuno ti accusa d’essere derivativo. Nessuno può scavare negli scatoloni di dvd per rivedere il film che indegnamente hai omaggiato e bestemmiare perché non è su nessuna piattaforma e coi soldi con cui avete fatto questa roba inutile potevate restaurarmi Mike Nichols. Niente è uguale a niente, se prima non c’era niente. Anche se al presente non la si vive mai così: Luchino, come potevi scrivere a Suso che il festival del ’56 era quel che diremmo noi dei film di questo secolo, «roba perlomeno rimasticata cento volte»?
Evidentemente, nelle insofferenze di Visconti e nostre, tutto si ripete abbastanza uguale anche in assenza di similitudini: «La prima sera fu veramente una gran pena – veder quei quattro gatti rappresentare un povero cinema in agonia» scrive sempre Visconti sempre a Suso Cecchi D’Amico, dal festival di Venezia dell’anno dopo; è il 1957, e pare sì un po’ Favino che imita Guadagnino dicendo che Venezia è un festival di second’ordine, ma soprattutto pare noialtri che nel 2024 diciamo che è tutto finito, il cinema è morto, l’ignoranza è ormai dilagante.
Che è quel che ho pensato leggendo il ventiseienne Vittorio Gassman che scrive, su carta intestata d’un albergo di Venezia, a Visconti per dirgli che potrebbe mettere in scena questo testo o quell’altro, e lui potrebbe esserci dopo la tal data, «dopo aver fatto un redditorio quanto ignobile filmetto», e quindi è esistito un secolo in cui i ventiseienni avevano un italiano splendido, prima di questo in cui i cinquantaseienni si esprimono con le faccette.
«Il pubblico intelligente (e avremo un pubblico intelligente) non va certo a teatro per divertirsi», scrive Menotti a Visconti per convincerlo a inaugurare il primo Festival dei Due Mondi con il “Macbeth” e non con il “Falstaff”, e la mia invidia è per quel «quelle donnette del “Falstaff”, in fondo, sono un po’ delle scocciatrici» che oggi saremmo tutti troppo terrorizzati di venire decapitati in piazza per mettere per iscritto (o forse lo faremmo, lo scriveremmo su WhatsApp ai nostri mille più intimi amici sconosciuti, e poi ci stupiremmo moltissimo per lo screenshot circolante un po’ ovunque).
Ma è soprattutto, la mia invidia, per quelle lettere attorno al primo Festival dei Due Mondi, che quando ci andai a diciassette anni era già un classico (uno dei pochi: non erano ancora i giorni nostri, in cui ogni weekend ci sono almeno tre festival culturali, l’economia delle proloco era meno fiorente). E invece, quando Luchino Visconti aveva gli anni che ho io oggi, c’era un intero canone da inventare, persino il Festival dei Due Mondi aveva ancora tutto o quasi tutto da sbagliare (come facevano, però, in quegli anni di tutto inedito, senza canzonette da citare?).
«Tutte le produzioni italiane si stanno passando di mano in mano il film di Fellini e nessuna riesce a combinarlo», scrive Notarianni a un incazzatissimo Visconti che si ritiene, dice a Suso, «palesemente danneggiato dalla poltroneria dei nostri cari amici» (che parola splendida, poltroneria) che traccheggiano su “Rocco e i suoi fratelli”. E una, sfogliando, si chiede quante mitomanie verranno alimentate da questo epistolario: ora chiunque penserà che quella sua sceneggiatura che non viene finanziata sia proprio come quel film che tutti si passavano e poi divenne “La dolce vita”.
Bisogna fare tutto diverso, aveva ragione lui, anche imparare a insultarsi meglio. «Quello che lei mi dice di Anna che sarebbe furibonda contro di me – mi stupisce e nello stesso tempo mi lascia assolutamente indifferente. Ma è proprio cretina la nostra grande?», scrive a Suso Cecchi D’Amico a proposito di Anna Magnani. Voglio usarlo per il prossimo film che mi delude. Altro che «era meglio il tal classico»: mi ha fatto schifo e nello stesso tempo mi ha lasciata assolutamente indifferente.