«Cantami l’ira funesta, la pace, l’amore, l’estate»: succede sabato, quando è buio da poco, e sul palco del JovaBeachParty c’è Tommaso Paradiso, e Lorenzo sta rappando sopra una sua canzone, perché ogni tanto ti ricordi delle cose che volevi fare da giovane promessa e le tiri fuori col lusso indolente dell’ormai venerato maestro, e quindi lui ha scritto qualche rigo di rap che forse è un editoriale e forse no, e arriva l’ira funesta e io come tutti quelli che hanno più istruzione che cultura penso «ah, Omero» – e mi odio.
L’espressione più abominevole del presente è «è il nuovo». Virzì è il nuovo Altman, la Fanelli è la nuova Vitti, il JovaBeachParty è il nuovo Woodstock, Carlo è la nuova Elisabetta, Conte è la nuova Dc, Piccioli è il nuovo Lagerfeld, Only Murders in the Building è il nuovo Woody Allen, Paolo Giordano è il nuovo Martin Amis, Ilary Blasi è la nuova Ivana Trump, Lorenzo è il nuovo Sugarhill Gang o forse il nuovo Omero sebbene un attimo prima mi fosse parso evidente che mirava a essere il nuovo Ariosto: quand’è che abbiamo smesso di produrre categorie critiche e siamo diventati capaci solo di dire cosa somiglia a cosa? Se tutto quel che la critica culturale sa fare è produrre pigre analogie, allora tanto vale un algoritmo. Se di niente sappiamo dire che non somiglia a niente che esistesse già, cosa diamine produciamo roba nuova a fare?
Frank Sinatra non somigliava a nessuno. «Ne nasce uno ogni epoca, e doveva nascere proprio nell’epoca mia?», esalò una volta Bing Crosby, che pure non era uno che nella storia della musica fosse destinato al rilievo di Sandy Marton.
Quest’estate ho pensato tantissimo a Frank Sinatra, e a quelli che è difficile catalogare, a quelli che non sono il nuovo qualcuno, e non solo perché hanno lavorato in epoche in cui la critica culturale non aveva ancora rinunciato al suo compito e smesso di cercare di capire il mondo: perché erano loro che sfuggivano alle catalogazioni. Il crooner elegante che diceva «canto col cazzo nella voce», il cantore della bella vita che era cantore della classe operaia. Lo disse Bruce Springsteen al suo ottantesimo compleanno, quando ancora si riuscivano a dire cose più articolate di «Tizio è il nuovo Caio».
«Il mio primo ricordo di Frank è la sua voce che esce, di domenica pomeriggio, dal juke-box d’un bar buio in cui io e mia madre eravamo andati a cercare mio padre, e lei che dice “ascolta, è Frank Sinatra, è del New Jersey”. Era una voce in cui c’erano brutto carattere e vita, bellezza, esaltazione, un indecente senso di libertà, sesso, e una cupa consapevolezza di come andasse il mondo. Era un pugno e un bacio, ma a colpirmi era la profonda tristezza della voce di Frank; e, benché la sua musica sia diventata sinonimo di abiti da sera, bella vita, i migliori liquori, donne, sofisticatezza, la sua voce da blues aveva sempre il suono della peggior sfortuna e degli uomini che, tardi la sera, con gli ultimi dieci dollari in tasca, cercano di escogitare un modo di cavarsela».
Quella cosa lì mi manca persino più dei nuovi Frank Sinatra che non vedo a frotte (forse Robbie Williams?): mi manca un critico culturale (che non sarebbe neppure il mestiere di Springsteen, ma non cavilliamo) il quale, invece di dire «Liam Gallagher è il nuovo Frank Sinatra», ci sappia evocare un mondo, costruircelo in due minuti di discorso, farci dire cazzo, sì, come ho fatto a non pensarci, come ho fatto a vedere solo il tizio che sapeva portare lo smoking e non quello che lo portava continuando a parlare a chi aveva il problema di procurarsi una camicia stirata.
Il talento è quella roba lì: vedere nelle cose vecchie nuove idee. Replicarsi sembrando sempre appena inventati. Notare l’angolo cieco del margine del pezzettino non illuminato dell’opera, dell’artista, della dinamica che credevi di conoscere a memoria.
Forse è perché mi cerco un talento, che non riesco più a guardare roba nuova. Che torno agli stessi concerti, che rivedo gli stessi sceneggiati, rileggo gli stessi libri, gioco a nuovi Spelling Bee tenendo in sottofondo sempre gli stessi vecchi film, sapendo che arriverà un dettaglio a colpirmi come fosse nuovo. Ma non: ah, guarda, è il nuovo qualche-altro-film. A ogni replica, ogni opera d’un qualche valore mi pare la nuova sé, quella di cui non m’ero accorta. Se ogni volta che vedo un vecchio Allen ci trovo dettagli che avevo trascurato, che me ne faccio della nuova serie che lo omaggia?
Sabato, mentre Lorenzo chiudeva il suo tour fuori Milano, uno che seguo su Twitter era a vedere Billy Joel al Madison Square Garden, il solito concerto col solito repertorio che Joel fa nel solito posto da anni, e il tizio twittava che la risposta del pubblico ogni volta che Joel attaccava una delle sue strasentite canzoni era: figata, fa un altro pezzo che conosco e che mi piace, fa addirittura i pezzi famosi di Billy Joel, cosa potevo volere di più.
Forse siamo tutti lenti di riflessi, di sicuro lo sono io, ed è per quello che quando vado al finale di stagione del JovaBeachParty, ed è un concerto che ho già visto tre volte e sono in grado di dire agli amici ah sì, qui fa l’aerobica di Jane Fonda mettendo i dischi dei Blur e ci si può andare a prendere da bere, però guardate che qui fa una sleppa delle mie sue canzoni preferite e guai a voi se m’interrompete mentre squarciagolo, forse è per quello che ogni dettaglio fin lì non notato mi sembra un dettaglio che converga nella sintesi che ne fa Lorenzo sul finale tommasoparadisico, «a cavallo del pop oltre i confini del mondo», ed è a me – tarda – che servivano molte repliche per capirlo.
«Scrivo rime baciate perché mi piace baciare», rappa Lorenzo su Paradiso, e mi viene in mente quel critico che settant’anni fa scrisse che per Sinatra un microfono valeva quanto una ragazza che aspettasse d’essere baciata, e intanto quello (quello Lorenzo, no quello Frank) ariosteggia ma pure rowlingheggia ma pure risponde senza citarle alle stronzate di chi, pur d’infilarsi nella polemica del giorno e fare tanti bei clic, s’è negli ultimi mesi impegnato a fingere di credere che il problema del pianeta o anche solo della penisola fossero i concerti. Mica dice che è a cantare in un aeroporto privato per mettere in pausa per un giorno i decolli inquinanti (sarebbe una paraculata stupenda, peccato); finge di parlar d’altro, giacché è lontano dal trending topic pretestuoso – sia esso ecologista o altro – che ha senso mirare: «Stasera volano schiaffi, fatevi sotto babbani, noi siamo i figli del pop e non abbiamo paura: di ritornelli leggeri, di amore, di avventura».
Forse è solo che siamo arrivati dopo. Siamo il nuovo qualcuno perché ormai il pop come lo concepiamo esiste da più di sessant’anni, e l’altro giorno ho visto un film in cui qualcuno sembrava dovesse buttarsi da una scogliera, e ho pensato «Ah, Butch Cassidy», ma che colpa ne abbiamo se siamo nati dopo e sul territorio immaginifico della fuga buttandosi dalla scogliera avevano già pisciato altri.
Forse possiamo solo provare a mettere del nostro nella tradizione, ad aggiungere un dettaglio che illumini nuovi angoli dei classici, «io non sono Mozart e tu non sei Picasso, io son Lorenzo e Saturnino sta suonando il basso: apprezzo ciò che è stato e ne farò tesoro ma ancora c’è da farne di lavoro» diceva un disco di quand’eravamo giovani e arroganti.
Quando eravamo grandiosamente mitomani, e meno male che qualcuno lo è ancora e mette su audaci imprese e si sorbisce il contraccolpo dei più fastidiosi, che mica sono gli umili: sono quelli la cui mitomania è in scala minore, la cui ambizione è moltiplicare i clic, sono i micromegalomani che vogliono ricamare sullo scandale du jour, mica proclamarsi imperatore. Quando Sinatra andava alla Casa Bianca, il nome in codice che usavano per lui i servizi segreti era «Napoleon».