Ma insomma, cosa avrebbe dovuto fare Benjamin Netanyahu dopo il 7 ottobre per liberare gli ostaggi, se non attaccare Hamas? È l’obiezione che viene fatta da chi ritiene che la pressione militare fosse l’unica strada per costringere Sinwar alla resa. Familiari degli ostaggi e oppositori del governo sostengono invece che per Netanyahu liberare i rapiti non sia mai stato un vero obiettivo, solo un’eventualità.Ritengono che la strategia della pressione militare non fosse affatto l’unica strada. Anzi non fosse affatto “la” strada per salvare gli ostaggi, perché liberare militarmente Gaza da Hamas e liberare gli ostaggi non sono obiettivi perseguibili con una stessa, unica strategia, né con una stessa unica timeline.
Un riepilogo dei fatti sembra dare loro ragione. Il 7 ottobre sera il premier Netanyahu annuncia in tv la guerra ad Hamas. L’obiettivo – dice – è distruggere i terroristi. Non parla dei duecentoquaranta ostaggi, quella sera. Lo farà solo il giorno dopo e solo per lo sconcerto suscitato dalla dimenticanza nella comunicazione serale del Sabato Nero. Gli ostaggi – sostiene nella tardiva correzione – potranno essere liberati solo dalla «pressione militare», cioè Sinwar e i suoi tagliagola si spaventeranno di morire sotto le bombe di Israele e quindi capitoleranno e faranno la corsa a restituire i civili rapiti, cedere le armi, arrendersi.
Su stampa, tv, nelle piazze israeliane – che si riempiono subito di persone sconvolte e unite nel dolore – ci si chiede come possa funzionare questa cosa della pressione militare. Quei duecentoquaranta cittadini, non solo israeliani, sono detenuti chissà dove. Senza intelligence, bombardando alla cieca, non si rischia forse di colpire anche loro? E sono compatibili la paura di morire o la pietà verso i civili massacrati, da parte di Sinwar e gli altri, con la cultura genocidaria di Hamas e Jihad Islamica?
Analisti militari, esperti di intelligence, giornalisti israeliani e americani manifestano dubbi. Hamas è ideologicamente assetata di martirio. Se c’è una cosa di cui non hanno paura Sinwar e i suoi picciotti è morire. Se c’è una cosa che li rafforza è il martirio di decine di migliaia di palestinesi. Quello che Israele dà loro, subito: martirio e martirio.
La dottrina della pressione militare viene messa in dubbio via via anche dalla realtà. Dopo le prime settimane di bombe a tappeto, a Gaza arrivano i carri armati. L’idea è procedere da nord a sud a “bonificare” la Striscia metro per metro. L’esercito israeliano (Idf) avanza, scopre tunnel, scova terroristi negli ospedali, nelle scuole, negli uffici di Unrwa (Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nel vicino oriente, ndr). Scopre covi con tracce di ostaggi. Ma ostaggi no, non ne trova. Salvo tre che si erano miracolosamente liberati dai carcerieri. Salvati? No, uccisi.
I tre giovani israeliani rapiti e deportati il 7 ottobre erano usciti mani in alto e torso nudo da un edificio bombardato a nord di Gaza nel quale avevano lasciato scritte in ebraico – aiuto, sos. I soldati israeliani vedono da lontano questi tre maschi lì dove non avrebbero dovuto esserci civili – le mani in alto possono esser un depistaggio – e sparano. Muoiono per fuoco amico. Si scoprirà dopo che un cane “militare” dell’esercito israeliano, mandato giorni prima dentro quell’edificio con una go-pro per riprendere la scena e impedire ai soldati di entrare in presenza di terroristi armati, ne aveva registrato la voce. I tre chiedevano aiuto in ebraico ma dall’altra parte non c’era nessuno ad ascoltarli.
La pressione militare a Gaza va avanti, nella esplosiva riprovazione umanitaria globale. L’esercito israeliano annuncia i successi, le conquiste, i capi delle varie squadracce uccisi e in poche settimane si ha l’idea che funzioni. Idf annuncia che il nord e il centro della Striscia sono ormai sotto controllo, al punto da spostare le truppe verso sud.
Attorno al cinquantesimo giorno di guerra si arriva al primo accordo per il rilascio degli ostaggi in cambio di una tregua. L’idea della pressione militare” embra arrivata a riscuotere il premio. Per una decina di giorni, ogni giorno, decine di ostaggi donne e ragazzini vengono liberati dalla prigionia. Provati, denutriti, alcuni gravemente feriti, racconteranno delle case civili presso cui sono stati detenuti, dei tunnel al buio e senza aria, del permesso per andare in bagno accordato dopo ore. Racconteranno dei bombardamenti, delle violenze sessuali subite dai carcerieri e del sadismo delle famiglie dei carcerieri. Faranno capire senza ombra di dubbio come per ciascuno degli ostaggi un solo giorno di prigionia sia un giorno di troppo.
E invece passano i mesi. Mentre va avanti la farsa diplomatica del negoziato mediato dal Qatar – il paese sponsor di Hamas – una mattina arriva la notizia che nella notte, in un blitz a Khan Younis – roccaforte e città natale del capo militare di Hamas a Gaza –le Forze Speciali di Idf hanno liberato due ostaggi. È tata un’incursione spettacolare, da terra e dall’aria in una Khan Younis all’epoca non ancora bonificata dalle forze israeliane. Il blitz è un successo, l’intelligence ha fatto il suo lavoro. Purtroppo è stato solo un episodio.
Dopo sette mesi di pressione militare a Gaza di ostaggi ne rimane un centinaio – in gran parte spoglie. Idf è dovuto tornare nelle aree a nord e al centro di Gaza che nel primissimi mesi di guerra aveva dichiarato «sotto controllo», perché senza nessuno diverso da Hamas che possa assumere il governo di quelle aree, bonificarle è praticamente inutile – una «fatica di Sisifo», l’ha definita il Chief of Staff dell’esercito israeliano, Herzi Halevi a maggio, alla viglia delle celebrazioni del Giorno della Memoria.
Dopo sette mesi di guerra, i terroristi continuano ad avere il controllo del sottosuolo. Lì si spostano, raccolgono le armi; lì probabilmente nascondono gli ostaggi ancora vivi. Dopo sette mesi di combattimenti per terra e per aria si stima che Idf abbia identificato e distrutto meno del quaranta per cento dei tunnel – la Gaza giù– mentre oltre l’ottanta per cento della Gaza su è ormai macerie.
Decine di migliaia di morti palestinesi, milioni gli sfollati; centinaia di ventenni israeliani uccisi al fronte, migliaia i feriti, i traumatizzati, i mutilati; duecentomila persone israeliane sfollate dal sud e dal nord di Israele dove vanno avanti gli attacchi di Hezbollah, ma degli ostaggi a Gaza resta solo un macabro stillicidio di video diffusi da Hamas, prima di annunciarne la morte.
Dopo sette mesi, la pressione militare su Hamas, col suo costo umano esorbitante, non ha liberato gli ostaggi. Se anche Netanyahu fosse stato convinto, all’inizio, che la pressione militare fosse la strada per la liberazione degli hatufim, col passare del tempo la dottrina non regge più.
Per gli ostaggi il tempo è un fattore determinante, è il tempo che ne decide la vita o la morte. Di tempo per essere stuprate ce ne vuole pochissimo. Per le donne che sono in mano a quei barbari anche un minuto è un minuto di troppo. Gli ostaggi non hanno il tempo che serve alle Idf per eliminare militarmente Hamas. E quando l’esercito arriverà finalmente al tunnel-covo di Sinwar, lo troverà circondato di ostaggi israeliani e dovrà colpire loro per colpire Sinwar.
Scriviamo dopo l’emozione suscitata dal video diffuso dal Forum delle famiglie degli ostaggi che riprende i momenti in cui le osservatrici del confine, delle ragazzine in forza alla base militare di Nahal Oz, vengono rastrellate il 7 ottobre.
Una di loro è una attivista per la pace e il dialogo israelo-palestinese. A quel porco che le sta davanti armato e le urla in arabo lei dice, candidamente: «Ho amici in Palestina». Uno dei terroristi guarda queste sioniste in pigiama, legate, col volto coperto di sangue, in una stanza ormai piena di cadaveri, e commenta in arabo: «queste possono restare incinta». Quelle ragazze sono ancora nelle mani degli jhadisti.
Le loro madri sono costrette a convivere da sette mesi con la consapevolezza che le loro figlie stiano subendo la condizione di oggetto sessuale di quelle bestie. Hanno voluto che quel video – censurato delle parti più macabre – fosse diffuso, perché aiutasse i decisori politici a decidere. Dopo settimane di stallo, il Gabinetto di Guerra la sera stessa decide di riavviare i negoziati con Hamas. Potere dei media!
Ma cosa avrebbe dovuto fare allora Israele dopo il 7 ottobre? Sono convinta che avrebbe dovuto darsi la priorità di liberare gli ostaggi – perché gli ostaggi non hanno tempo, mentre distruggere Hamas richiede un tempo lunghissimo, il tempo di un’operazione militare, diplomatica, umanitaria, politica capace di sradicare in profondità la minaccia dalla Striscia ai cittadini di Israele. Salvare gli ostaggi subito avrebbe avuto un prezzo infinitamente inferiore rispetto a quello insostenibile pagato sin qui.
Si sarebbe potuto? A un certo punto, dopo il primo e unico accordo, Hamas aveva alzato la posta e proposto uno scambio all for all – tutti gli ostaggi in cambio di tutti i detenuti palestinesi. Tutti gli stragisti, tutti gli assassini, tutte le bestie nere con le mani sporche di sangue in cambio di un centinaio di innocenti. La cosa è stata liquidata dal governo e gran parte dell’opinione pubblica israeliana come irricevibile, uno scandalo assoluto. Solo alcune famiglie degli ostaggi avrebbero voluto che venisse accolta, ma non la totalità.
In realtà se il governo avesse accettato, Israele avrebbe potuto ri-arrestare quei terroristi – come ha fatto per un numero spropositato di arabi dal 7 ottobre. Avrebbe potuto ucciderne una quantità – come ha continuato a fare nel West Bank, sempre dal 7 ottobre. Avrebbe potuto portare avanti le operazioni militari a Gaza ma senza più l’angoscia di dover conseguire due obiettivi tra loro incompatibili – salvare i cittadini israeliani nascosti chissà dove a Gaza e nello stesso tempo abbattere qualunque cosa si muova tra le macerie di Gaza – perché qualunque cosa si muova a Gaza è una potenziale minaccia.
Il costo di un accordo, se mai sarà raggiunto, ora sarà molto più alto, troppo più alto. Israele sarà comunque costretto a rilasciare migliaia di terroristi con le mani sporche di sangue, ma in cambio non avrà più la liberazione di (quasi) tutti gli ostaggi ancora vivi. Avrà per lo più cadaveri e persone traumatizzate da mesi di orrore quotidiano dal quale potranno non riprendersi più.
Il difetto di ragionare con i “se” è che un esercizio inutile. Solo gli scrittori o gli sceneggiatori potranno immaginare come avrebbe potuto essere se l’obiettivo fosse stato salvare gli ostaggi. E forse solo gli storici potranno spiegare perché le cose non sono andate così.
Oggi, noi che non siamo israeliani ma che amiamo Israele; noi che potremmo essere madri e padri di quelle ragazzine; che potremmo essere nelle piazze di Israele, nei presidi, nei blocchi stradali contro Netanyahu e il suo governo incendiario; noi cosa possiamo fare per gli ostaggi nelle mani di Hamas?
Possiamo far pressione sul nostro governo e sulle autorità europee, ma il governo italiano e le autorità europee hanno appena perso l’occasione di mostrare solidarietà alle vittime del macellaio di Teheran, invece che al macellaio – come aspettarsi possano avvertire il dovere di far qualcosa per gli ostaggi di un’altra – cito – «nazione»?
Le famiglie delle vittime di Hamas sono ormai felici anche solo di avere indietro le spoglie dei loro figli torturati e uccisi il 7 ottobre e deportati a Gaza, già cadaveri, solo per poter essere scambiati. Ma tra loro c’è chi spera di potere ancora riavere vivi i propri cari. Chiedono un accordo subito a qualunque costo perché liberare gli ostaggi è pre-condizione della vittoria su Hamas, non una consequenziale eventualità. Dobbiamo parlarne, dobbiamo insistere, dobbiamo sostenerli perché hanno ragione loro.