C’è una falla nella diplomazia americana: nessuno, in primis il presidente, ha la minima proposta o idea sul che fare di Yaha Sinwar e dei suoi feroci quattromila miliziani di Hamas armati di tutto punto barricati nei tunnel di Rafah. È massiccio e unanime il consenso internazionale che stringe Israele per impedire che dia il via all’assedio dell’ultima ridotta dei macellai del pogrom del 7 ottobre. La tela intessuta da Joe Biden e dall’ottimo Anthony Blinken è stata completata con l’accordo di tre giorni fa a Ryad che impegna Mohammed Bin Salman a un rapido riconoscimento di Israele da parte dell’Arabia Saudita. Riconoscimento che modificherà l’aspetto dell’intero Medio Oriente.
Di fatto, mai come oggi dai tempi della guerra del Vietnam, la pressione della campagna elettorale imminente condiziona la politica estera del presidente americano che deve fronteggiare larghi settori del suo partito e soprattutto del suo elettorato sconvolti dalle migliaia di morti civili di Gaza. Si vedrà se questa massiccia pressione internazionale avrà effetto, così come si vedrà se la reiterata minaccia di Benjamin Netanyahu di un intervento devastante a Rafah piegherà Hamas al rilascio di trentatré ostaggi in cambio di una tregua di sessanta giorni e della liberazione da parte di Israele di migliaia di detenuti palestinesi.
Se l’accordo di tregua e liberazione di detenuti palestinesi in cambio di trentatré ostaggi andrà in porto resterà però il problema centrale: dopo i sessanta giorni di cessate il fuoco che cosa accadrà? Israele lascerà che Jaha Sinwar esca da vincitore dai tunnel di Rafah, pronto a dettare di nuovo legge su Gaza?
Dopo il pogrom del 7 ottobre, non è pensabile che Israele, chiunque sia alla guida del governo, accetti questa umiliazione. Non è pensabile che Israele, chiunque sia il premier, incluso Benny Ganz, accetti di convivere con un governo dello Stato palestinese in cui emissari di Jaha Sinwar, magari camuffati da tecnici, abbiano un ruolo.
Il punto, la falla nel disegno della amministrazione Usa è l’analisi errata della natura di Hamas. Una grande, enorme, cortina fumogena è costituita dal credito che viene dato dalla diplomazia occidentale – e dai media – alla dirigenza di Hamas all’estero. Esperta nell’arte islamica della dissimulazione, la taqiyya in arabo, che permette e incita a pronunciare colossali e raffinate menzogne per coprire i propri e reali obiettivi strategici: il gruppo dirigente di Hamas all’estero è infatti abilissimo nell’accreditare sulla scena diplomatica un volto affidabile, disponibile alla trattativa politica, alla mediazione. Ma questo gruppo dirigente, composto da Khaled Meshaal, Ismail Haniyeh, Abu Marzuq e Khalil al Hayya e altri, in realtà è stato totalmente sconfitto ed emarginato già nel 2017 perché aveva portato alla rottura con l’Iran per aver appoggiato la ribellione fallita dei Fratelli Musulmani in Siria contro il regime di un Beshar al Assad, indispensabile alleato dei Pasdaran e degli ayatollah iraniani.
Da allora, da sette anni, la direzione di Hamas, il potere decisionale vero, è nelle mani di Jaha Sinwar e di Mohammed Deif. I documenti politici, le mediazioni, le aperture della direzione estera comodamente alloggiata negli hotel di lusso del Qatar sono aria fritta, sfrontati specchi per le allodole che attirano solo i media e i leader occidentali che non vogliono prendere atto della realtà. E la realtà è che la strategia e la tattica di Hamas null’altro sono se non quelli dispiegati nel pogrom del 7 ottobre. Efferate crudeltà incluse. Presa degli ostaggi inclusa. Utilizzo cinico della popolazione di Gaza come scudo umano incluso. La realtà è che l’unico leader di Hamas che decide, che ha il potere vero di decidere, è Jaha Sinwar, uno che combatte e massacra gli ebrei perché ebrei. Che vuole imporre un Califfato tragicamente simile a quello dell’Isis su tutta la Palestina, “dal fiume al mare”.
L’ignoranza dei leader occidentali, americani ed europei, della tradizione politico-militare islamica è sconcertante. In essa, un ruolo centrale gioca il riferimento strategico forte alla “tregua di al Hudaybyya”. Questo fu un accordo di mediazione siglato nel 628 d.C. da Maometto, alla testa del suo esercito di fedeli in armi, con gli avversari altrettanto in armi delle tribù della Mecca. Accordo che permise a Maometto di accumulare forze, di confondere, di dividere e di indebolire gli avversari e quindi di entrare trionfalmente alla Mecca manu militari due anni dopo, nel 630 d.C.
Dunque, nella tradizione politico militare islamica, la trattativa non è finalizzata alla mediazione, al compromesso, al cedere su parte dei propri obiettivi pur di ottenere soddisfazione su una parte consistente. Al contrario, la mediazione è finalizzata unicamente a confondere l’avversario per poi ottenere il cento per cento degli obiettivi.
Non a caso, Yasser Arafat, definiva – in arabo, non in inglese – gli Accordi di Oslo del 1993 una «Hudaybyya», una tregua per confondere Israele e poi tentare di imporgli la sconfitta lanciando nel 2000 la Intifada delle Stragi, dopo aver rifiutato la restituzione del novantatré per cento dei Territori occupati offerta dal premier israeliano Ehud Barak. Questo il senso delle mediazioni, inclusa l’accettazione temporanea della logica dei due Stati, che vengono oggi dalla Hamas del Qatar. Una presa in giro, un gioco delle tre carte, che serve a coprire il gioco vero. Quello condotto con ferocia da Jaha Sinwar.
Sia come sia, è dunque evidente che né Joe Biden né nessuno dei leader europei che si accingono a riconoscere lo Stato palestinese ha la minima idea di come sia possibile dare vita a due Stati che – se non verranno spazzate via le milizie di Hamas di Rafah – saranno sempre minacciati dalla terribile falange di morte di Jaha Sinwar.
Se Hamas non viene schiacciata ed eliminata militarmente – questo è l’obiettivo della operazione bellica di Israele su Rafah – e se Jaha Sinwar uscirà da sette mesi di guerra di Gaza come un sostanziale vincitore perché ha sì perso dodicimila e più miliziani, ma ha mantenuto intatto il nucleo d’acciaio e il quartier generale del suo esercito, Hamas sarà in grado di dettare legge in futuro, sia sul piano militare che su quello politico.
Non solo potrà minacciare dei nuovi pogrom alla 7 ottobre. Non solo costituirà l’incubo permanente per la sicurezza degli israeliani, ma sarà anche in grado di dettare legge – la sua legge di sangue e di morte – sulla dirigenza palestinese nazionalista del nuovo Stato che prenderà il posto dello screditato Abu Mazen. Il tutto, con un prestigio politico accresciuto non tanto sulla popolazione martoriata di Gaza, quanto su quella della Cisgiordania in cui Hamas ha un solido impianto.
Questa enorme pecca nella diplomazia americana e internazionale – come contenere la forza politico-militare di un Jaha Sinwar non sconfitto, anzi sostanziale vincitore, per resilienza, della guerra di Gaza – incombe su tutto il futuro del Medio Oriente.
Se Hamas non verrà sconfitta in via definitiva e potrà uscire sostanzialmente indenne dai tunnel di Rafah, il Fronte della Resistenza e il suo padrino iraniano potranno cantare vittoria. Lo Stato palestinese che la comunità internazionale vuole fondare avrà in Jaha Sinwar il suo incubo permanente. Nessuna forza araba multinazionale o nessuna altra struttura di controllo potrà mai garantire non solo la sicurezza di Israele, ma neanche quella della dirigenza politica palestinese del nuovo Stato. A meno che non sia implicito un non detto: che tutta la platea internazionale, Stati Uniti in testa, sia disponibile a trattare alla pari con Jaha Sinwar, forte della sua milizia di carnefici e di torturatori di ostaggi. Uno scenario che Israele, chiunque sia al governo, non può subire.