Dalla Francia all’Italia sembra una strada facile e veloce, invece per approdare – è proprio il caso di dirlo – alla sua Colline Albelle, azienda vitivinicola sulle colline di Riparbella (Pisa), l’enologo Julian Reneaud ha fatto diversi giri del globo, un naufragio, birra nel Pacifico, vendemmie nell’emisfero australe e parecchie miglia nautiche. Da dove si comincia? Dall’inizio, da una spinta per il viaggio nata all’Aia, quando l’Unione europea ha coinvolto giovani da tutti gli stati membri per presentare progetti dedicati all’integrazione comunitaria. Da lì non si è più fermato, finché non ha trovato quaranta ettari, vigne e un casale da recuperare in Toscana. È tornato in Europa, sì, ma portandosi dietro anche qualcosa di più.
Un viaggio per l’Europa
«Di solito mi chiedono tutti perché un francese fa vino in Italia». Sarà la voglia di sentir dire a un francese che l’Italia in qualche cosa è meglio, sarà quell’eterna competizione del vino nostrano con i cugini d’Oltralpe, ma la domanda, Julian, se la sente fare spesso.
Classe 1988 originario di Carcassonne, una famiglia che ha sempre fatto vino nel sud della Francia, gli studi da enologo. Questa volta però si parte da più lontano. «Il mio primo viaggio da solo è stato per partecipare a un progetto della Commissione Europea, avevo quindici anni e c’erano giovani da tutta Europa» racconta. «Mi sono trovato in Olanda, tra Utrecht, Amsterdam e l’Aia, dove tutti noi presentavamo dei progetti a livello europeo. Noi come Francia proponevamo un’alternativa all’Erasmus. Mi spiego, l’idea dell’Erasmus era molto bella, ma era rivolta solo a chi studiava. In tutti i Paesi i cittadini più favorevoli all’Unione europea sono quelli che hanno studiato o che sono stati favoriti dal sistema europeo, mentre chi non ne ha mai fatto esperienza è contrario. Noi volevamo creare un Erasmus allargato a tutti lavoratori. Ricordo che sono arrivato da mia mamma con l’autorizzazione della scuola per partecipare al viaggio e le ho detto “mamma, parto”. Lei ha detto che dovevo semmai chiedere il permesso, ma io ho risposto che ce l’avevo già. Credo in quell’occasione abbia capito che non c’era più niente da fare».
Presto Julian si rende conto che la politica ha tempi troppo lenti per reagire agli stimoli, ma l’esperienza di quel viaggio gli lascia il desiderio di partire per continuare a scoprire il mondo al di fuori della sua zona di comfort a Carcassonne. Ecco che quindi gli viene un’idea. «Ho pensato che diventare enologo mi avrebbe permesso di viaggiare. La mia famiglia faceva vino nel Sud della Francia e io volevo conoscere tutti i Paesi in cui si fa vino. Quindi ho studiato enologia, non per la passione del vino ma per viaggiare».
Su una zattera nel mar dei Caraibi
Arriva il momento di partire, ma c’è una condizione. «Mi ero posto questa sfida: fare il giro del mondo senza prendere l’aereo. Così sono partito in autostop, da Carcassonne al porto di Bordeaux, e lì ho chiesto a tutte le barche che partivano verso gli Stati Uniti, offrendomi come aiuto cuoco». Funziona, è il 2010 e Julian arriva, non proprio negli Usa, ma a L’Havana, con una sommetta da parte per il lavoro svolto in nave.
Qui ci riprova. «Ho trovato un signore che tornava in Texas verso Port Aransas. Era perfetto, ma la notte prima dormo nella sua barca e mi accorgo che era fatiscente. Gli chiedo se secondo lui ce l’avremmo fatta e lui mi dice: sicuramente la barca sarebbe più al sicuro in porto, però non è stata fatta per questo. È bastato a convincermi e siamo partiti».
Le cose però non vanno per il verso giusto. «Dopo una giornata di navigazione si sono rotti albero e vela secondaria e ci siamo trovati su una zattera nel mare dei Caraibi a mandare Sos». Mentre attendono, a bordo scoppia anche un incendio, ma per fortuna i soccorsi arrivano e i due vengono rimorchiati fino a Cancún, in Messico. «È facile raccontarlo adesso dalla sala della mia cantina» sorride Julian. «Avevo ventuno anni, e se ci penso credo di esser stato un matto».
Ogni fuso una vendemmia
Dal Messico agli Stati Uniti a bordo di un camion il viaggio non può essere più confortevole e finalmente Julian arriva a San Francisco per la sua prima vendemmia a stelle e strisce. «Finita la stagione ho continuato il mio giro del mondo. Sono partito per le Hawaii e da lì verso Nouméa in Nuova Caledonia, dove mi sono fermato per fare della birra».
Nei mesi di attesa tra una vendemmia e l’altra, Julian non poteva certo mettersi a fare il turista. Da lì parte per Australia e Nuova Zelanda, sempre in barca. Ad aprile anche qui la vendemmia finisce e lui riparte verso l’Asia, attraversando l’Indonesia per raggiungere Thailandia e Vietnam, poi il Giappone, prima di fare ritorno in Europa, attraverso la Russia. Nel frattempo si adatta ai lavori che trova, qualunque lavoro pur di trovare da solo le risorse per il proprio viaggio.
«Mi era piaciuto talmente tanto il viaggio che sono ripartito subito». Riparte dall’Africa, per un percorso non facile, poi torna verso l’Asia e l’Australia, ma la meta finale sono gli Stati Uniti, ai quali era rimasto legato durante il primo viaggio. «Il bello è che spesso attraversavo gli oceani a bordo di yacht, spesso i proprietari erano persone facoltose e anche amanti del vino, così con il fatto di essere enologo me la giocavo con serate di degustazione, che venivano molto apprezzate. Ho collezionato in questo modo contatti molto interessanti e uno di questi mi ha permesso di entrare in Opus One in California per la vendemmia 2012 e 2013. Ho partecipato anche alla produzione del vino che ha preso i famosi cento punti di Robert Parker».
Da quel momento l’attenzione per l’azienda cresce, e per i lavoratori che non sono impiegati fissi, come lui, iniziano ad arrivare proposte interessanti. «Un gruppo olandese mi ha proposto di andare a dirigere Caiarossa, a Riparbella, in Toscana. Non parlavo italiano ma la sfida mi è piaciuta. Dopo i miei viaggi, l’Europa e la Francia iniziavano a mancarmi. Arrivare in Italia era anche un modo per riavvicinarmi alla famiglia e agli amici»: più vicino di così.
Il colpo di fulmine per Colline Albelle
Dal 2014 al 2018 Julian dirige Caiarossa, ma nel 2018 succede qualcosa di inaspettato. «Ho trovato questa vigna in stato di abbandono. Era messa molto male, ma quando l’ho vista era mattina e il panorama da lì era così bello. Mi ispiravano sia la posizione che le argille bianche su cui si trovava, che danno anche il nome a Riparbella».
Una volta che un’idea radica, radica, e quei quaranta ettari, metà bosco metà vigna con un casale in rovina nella sua testa si stanno già trasformando in quella che oggi è la sua azienda, Colline Albelle. «Non avevo i soldi», dice Julian, ma si inventa qualcosa. «Ho fatto il progetto come se li avessi avuti e ho presentato il business plan a diverse persone. Alla fine sono riuscito a convincere due imprenditrici bulgare, che hanno accettato di farmi da business angel».
Al lavoro. «Volevo lavorare in regime biologico e biodinamico, come ho sempre fatto in tutte aziende in cui ho lavorato». Julian compra delle mucche da far pascolare tra i filari e nel frattempo cura le piante. «Dopo due anni la vigna è rientrata in produzione e ho iniziato con il sovescio». Accanto al vino però ha coltivato la passione per l’apicoltura, che ha appreso nel corso dei suoi viaggi. «Nei primi anni non prendevo il miele per far crescere la popolazione delle api. Da tre arnie il primo anno sono arrivato oggi a più di cinquanta». L’agricoltura biologica aiuta e adesso, con l’aiuto di un apicoltore professionista, a Colline Albelle si inizia a produrre anche il miele.
Il vino di un viaggiatore
Gira e rigira, siamo il condensato di tutte le nostre esperienze e le trasferiamo in tutto quello che facciamo. A Colline Albelle si producono sei vini e in ognuno di questi Julian mette un po’ degli insegnamenti che ha raccolto in quasi quindici anni di viaggi. Il vermentino in purezza Inbianco ne è un esempio. «Per ora è il primo e unico vermentino italiano a dieci gradi alcol. Non c’è nessun processo di dealcolizzazione, anticipo semplicemente la vendemmia».
L’ispirazione arriva dall’esperienza in Champagne, durante la quale Julien era rimasto molto colpito dagli aromi delle basi spumante. Anticipa così la vendemmia, ma spremendo soltanto le prime gocce. «Se si fa pressatura leggerissima, le prime gocce che escono sono dolci. Lavoro con quelle e dopo la fermentazione a bassa temperatura e con lievito indigeno faccio la fermentazione malolattica, che trasforma l’acido malico in lattico, abbassando la percezione di acidità del vino». A questo si aggiungono sei mesi in barrique, non piegate a fuoco ma a vapore, per incidere il meno possibile sulla trama aromatica del vino.
Altro esempio è il merlot, unico vitigno internazionale, che Julian ha tenuto perché la vigna era quella in condizioni migliori. «Ho utilizzato una tecnica che ho scoperto lavorando per Opus One. Una volta ho trovato un tralcio tagliato in maniera sbagliata e ho visto che il grappolo che ci era cresciuto era rimasto indietro nella maturazione». Ha così iniziato a riprodurre quel taglio sbagliato nella sua vigna facendo sì che alcuni grappoli non giungano a maturazione completa al momento della vendemmia. «In questo modo ottengo un tannino con maggior carattere e più note vegetali. Un merlot un po’ fuori dagli schemi come può essere il vermentino».
In Europa, ma con qualcosa in più
Dal viaggio in senso geografico, Julian ne ha quindi iniziato un altro, più temporale e fatto soprattutto di costruzione, in un luogo che in fondo è familiare. «Riparbella stessa latitudine di Carcassonne, anche qui c’è la prossimità del mare e in entrambi i luoghi colline, cipressi, vigne, oliveti, gente di campagna. L’unica cosa che vedo cambiare veramente è la lingua, perché anche le mentalità sono molto simili». Un po’ come se fossero due terre vicine.
«La cosa che mi ha colpito di più di tutti questi viaggi è che quando lo fai senza prendere l’aereo vedi ogni cultura cambiare gradualmente e pian piano trasformarsi in un’altra, così come le lingue. Non vedi un cambio netto, e questo è uguale per tutte le frontiere che ho potuto attraversare. La frontiera è una linea immaginaria, la realtà è più diffusa e collegata di così».
Alla domanda «Ti senti europeo o cittadino del mondo?» risponde: «Mi sono sentito bene in tutti i posti in cui sono andato e ho sempre cercato di adattarmi il più possibile. Sono partito da una scuola di ingegneristica in cui ci insegnavano che eravamo i migliori del mondo. Ma viaggiare ti fa prendere distanza e capire che spesso le idee così chiare non le abbiamo. Il pensiero europeo ha linee guida molto forti, spesso vediamo le cose o bianche o nere. Forse dovremmo imparare, come in Asia ad esempio, a considerare che anche una parte di grigio è importante». A pensarci bene, rispetto a quella proposta di parecchi anni fa a L’Aia, stiamo solo puntando un po’ più in alto.