Se conoscete il prebuggiùn sicuramente avrete un legame con il territorio ligure molto stretto: non è certo roba per turisti. Con questo nome, che sa di formula magica, si indica un rito, prima ancora che una cosa da mangiare. Perché per prepararlo occorre andare a cercare erbe selvatiche e coltivate (per alcuni solo selvatiche) che si trovano in questo periodo dell’anno, da preparare e mangiare insieme, come in una festa collettiva. Il nome, composto dalle parole pre e buggiùn, significa prima bollito: il mix di erbe si può usare in tanti modi, da mangiare così, per arricchire minestroni, per farne il ripieno di pansoti o torte salate, ma prima deve essere lessato.
A definire scientificamente questo rituale culinario, una quasi festa di primavera, è Giovanni Casaccia che alla fine dell’Ottocento ne dava una descrizione precisa nel suo “Dizionario genovese – italiano”: un «mazzo d’ortaggi composto di biete, di cavoli cappucci primaticci (gagge), prezzemolo, e altri mangiari, che usasi comunemente da noi cuocere con riso per minestre», una mescolanza, prosegue poi, che culmina in una festa collettiva. Ed è da lì che si parte ora, grazie al lavoro di Giulia Soldati, designer che ha fatto del cibo la sua materia principale, il suo campo d’indagine e di sperimentazione. Non è una food designer in senso stretto perché non si occupa dell’estetica del cibo, piuttosto di progettare un modo di stare a tavola che sia collettivo e conviviale. Invitata dall’associazione genovese BLU – Breeding and Learning Unit (fondata da Francesco Cavalli, Annalisa Gatto e Michele Genghi, si occupa, a partire dall’idea di Amor Loci, di nuove pratiche di progettazione) per un workshop e una cena pubblica, Soldati ha scelto proprio di preparare il prebuggiùn. Ma di farlo in un modo molto speciale.
Il suo prebuggiùn è un raccolto di storie che si fa con le mani e con il cuore. I partecipanti andranno con lei dai produttori locali a cercare le erbe necessarie e a farsi raccontare da loro le proprie storie umane e vegetali. Quel mazzo di erbe diventa anche un «mazzo di storie», spiega la designer «quelle che raccontano il territorio, che cosa significa essere locale, cos’è selvatico e cosa coltivato e quali progetti portano avanti questi coltivatori: sono le loro mani che producono gli ortaggi per passarli alle mani di chi li cucina e di chi li consuma».
Possiamo dire che si mangiano anche le storie personali insieme alle verdure selvatiche?
Sì, prepareremo un prebuggiùn di erbe, di storie, di persone. È quella la mescolanza che mi interessa.
Insieme all’attenzione sulle mani? La sua ricerca fino ad ora ha parlato proprio delle mani come strumento…
Certamente sì. Per me le mani sono uno strumento indispensabile. Quando studiavo avevo bisogno di realizzare con le mani quello che stavo studiando per capirlo in un modo più personale, poi con Contatto Experience la mano è diventata protagonista di un lavoro sul cibo in cui addirittura faceva d piatto. Perché consente di sentire gli alimenti, capirne la consistenza, la texture, la temperatura. Toccare con mano significa entrare in intimità. Poi ho iniziato a fare il pane e le mani sono diventate uno strumento vero e proprio, necessario per creare l’impasto, per capire se va bene. Questo è il mio percorso ed è ciò che voglio portare a Genova.
Si mangerà con le mani?
«Sì. Sono convinta che mangiare con le mani sia prima una riscoperta personale perché è il proprio corpo con i propri sensi a percepire quel particolare cibo. Poi diventa un momento di condivisione con gli altri, perché anche loro stanno provando le nostre stesse sensazioni. Così si abbattono facilmente le barriere e ci si connette agli altri come in un rituale. Se si accetta di condividere del cibo senza il proprio piatto personale, beh, allora si è davvero insieme!
Una scelta anche politica quella di mangiare insieme, senza posate, un cibo raccolto e acquistato dai produttori locali?
Ogni pasto che facciamo è una scelta politica: a seconda di dove si comprano gli ingredienti si finanzia un determinato mercato, che sia industriale, locale, etc. E poi, in questo momento particolare in cui siamo occorre considerare anche che l’equazione tra cibo e felicità non è sempre valida. Nelle guerre il cibo è un’arma molto potente.
Come è arrivata a occuparsi di cibo da studentessa di design?
È stata una scelta istintiva, molto naturale, forse per la passione personale, perché il cibo è sempre stato un grande tema in famiglia, perché andavo con papà al mercato a cercare determinati prodotti. Sicuramente il master che ho fatto in Olanda, a Eindhoven, è stato decisivo. Era un ambiente internazionale e il cibo era un tema di scambio, di confronto. Tra studenti si parlava di come si cucinava un ingrediente, si organizzavano cene per scoprire i piatti degli altri. Poi ho cominciato a guardare a quelle cene con gli occhi del design: come si progetta una sedia, si può progettare un modo di stare a tavola, dove il cibo diventa strumento di conversazione e le posate un interrogativo (non tutti le usano, anche se siamo convinti che siano uno strumento universale). Non mi interessa usare il cibo dal punto di vista estetico piuttosto per un approccio narrativo. Progetto relazioni.
Eccolo qui il suo prebuggiùn consapevole, sensoriale, condiviso. Il workshop con Giulia Soldati, Mani e terra si terrà a Genova nei giorni 9 e 10 maggio (informazioni da richiedere via e-mail [email protected]), mentre la cena aperta a tutti (ma con prenotazione obbligatoria) è in calendario per il giorno 11.