Maison de charmeL’arduo compito dell’ispettore alberghiero e i segreti nascosti dell’hôtellerie

Laurent Gardinier, presidente di Relais & Châteaux, svela a Linkiesta Etc i passi necessari per entrare in un “club” d’eccellenza con strutture sparse in tutti i continenti. Uno degli imperativi? Rispettare le esigenze e le tradizioni dei singoli territori

Wild Coast Sri Lanka (courtesy of Relais & Châteaux)

Il processo di selezione con cui una struttura entra a far parte della prestigiosa catena dei Relais & Châteaux è, per riprendere una famosa definizione di Wiston Churchill, un rebus avvolto in un mistero dentro a un enigma. Un alone di segretezza avvolge il processo di selezione e soprattutto le proprietà coinvolte perché, se essere ammessi è un onore, non esserlo è un dolore, oltre che un’occasione per migliorarsi fino ad arrivare a quel livello. 

Per fortuna, esistono rare occasioni di penetrare il sancta sanctorum del network e provare a indagare sul tema interrogando il suo Gran visir: Laurent Gardinier, il francese che dal novembre 2022 è presidente di Relais & Châteaux. Come da statuto, il presidente necessariamente deve possedere una dimora associata. Meglio ancora se due e mezzo, come nel suo caso: oltre al ristorante Le Taillevent, due stelle Michelin a Parigi, e il Domaine Les Crayères (Champagne), Laurent Gardinier ha appena acquistato una quota dell’hotel L’Oustau de Baumanière, a Baux-de-Provence, una maison de charme a cinque stelle che include un ristorante tristellato. 

L’occasione propizia accennata più sopra è fornita dal Delegation Meeting di Relais & Châteaux, l’incontro annuale dei consociati italiani, che quest’anno si è svolto nella tenuta “Il borro” di San Giustino Valdarno (Ar), della famiglia Ferragamo. Durante tre giorni di incontri, i soci italiani della catena hanno discusso e approvato l’action plan e il relativo budget del 2024, presentate dai manager della sede di Parigi, e accolto un nuovo (e cinquantesimo) socio, l’Hotel Cappella di Colfosco, in Alta Badia. Insieme ad altre undici novità, la new entry italiana rientra in un gruppo di eccellenza composto di cinquecentottanta indirizzi in tutto il mondo, che tramandano i valori fondanti dei primi membri della Route du Bonheur, nata nel 1954 in Francia dall’incontro di otto ristoratori e albergatori lungo la Route Nazionale 7, ossia la strada della villeggiatura dei parigini che collega la Capitale alla Costa Azzurra. 

Il Borro (ph. Francesca Pagliai / courtesy of Relais & Châteaux)

Ma, appunto, come si entra a fare parte di questo gruppo? «Per prima cosa in genere non ci si candida da soli, bensì tramite invito o segnalazione, anche da parte di altre dimore», ci ha risposto Gardinier nel primo giorno del Delegation Meeting. Ogni anno arrivano cinquecento application, da cui passano circa sette candidati dei quali, attraverso ispezioni da parte del management e di ispettori in incognito (molti dei quali ex ispettori Michelin) viene valutata l’adesione alla Quality Charter, una certificato di qualità articolato in cinquecento punti, che copre svariati ambiti: dall’accoglienza al servizio, dalla Spa alla cucina, che è una caratteristica irrinunciabile della catena. 

Particolare rilevanza viene attribuita all’allineamento del candidato con i venti punti del Manifesto sulla sostenibilità firmato da Relais & Châteaux all’Unesco nel 2014, il cui rispetto viene verificato in cucina e nelle operazioni quotidiane (come l’efficienza energetica e la gestione dei rifiuti) nel rapporto con i piccoli produttori del territorio, e in generale nell’integrazione nella comunità locale. In tempi brevi, sottolinea Gardinier, l’aspetto della sostenibilità, «dalla ventina di punti di adesso, dovrebbe presto rappresentare un terzo dei cinquecento punti totali». 

Essere ecologici è necessario, ma non sufficiente: per passare l’esame occorre superare il “6” in almeno tre ambiti, ed è previsto che abbiano maggior peso da ora in avanti la parità di genere nel personale e il punteggio relativo al “senso di un luogo”, che è un tratto che distingue questo network dai raggruppamenti di hotel di lusso. 

courtesy of Relais & Châteaux

«Ogni struttura è unica perché in stretta relazione con la natura e la storia di un territorio, oltre che di una famiglia. Per questo motivo ogni hotel organizza in autonomia le esperienze che vuole offrire: nessuno meglio di chi abita in loco può conoscere cosa vale la pena di fare», commenta Gardinier. Nondimeno, occorre assicurarsi che ogni proprietà sia in linea con gli standard richiesti, pur nel rispetto della sua specificità. E qui giocano un ruolo fondamentale i quattordici ispettori della rete, misteriose entità mezzo esteta e mezzo rupofobo (maniaco della pulizia), ufficialmente accreditati dal Cofrac – Comitato francese di accreditamento (ISO 17020 per gli organismi di controllo) e sottoposti a verifiche annuali. 

Sono loro che stilano un report sui candidati, prima che Gardinier li incontri e valuti di persona. Ben prima, prima, quindi, il giudizio viene rivolto agli stessi ispettori, messi alla prova per capire i criteri con cui valutano le strutture e quindi la rispettiva affidabilità. Il primo test consiste nel mandare tutti i candidati nella stessa struttura per due giorni. «Non diamo loro alcuna istruzione», spiega Gardinier, «per vedere cosa scrivono, se hanno occhio per il dettaglio e la sensibilità giusta per lavorare per noi. Per esempio, non sono accettabili gli asciugacapelli attaccati al muro: gli hotel di lusso non hanno paura che i clienti rubino i phon. Un dettaglio minuscolo ma che dà un’idea degli standard richiesti», precisa Gardinier. 

Glenapp Castle (courtesy Relais & Châteaux)

Gli ispettori imparano, con una specifica formazione, a osservare con criteri precisi e oggettivi ambiti in parte soggettivi. Come si decide, per dire, se una stanza è elegante o no? Gli ispettori passano lunghe ore a discutere con i loro istruttori dell’armonia dei colori di una camera, della qualità dei materiali, del numero di oggetti ammissibile perché l’effetto visivo non sia troppo saturo. Non sono disquisizioni da interior designer: occorre affinare il proprio gusto per discernere se una struttura è adatta a Relais & Châteaux, se il passato di un luogo è rispettato o funge da patina decorativa, se il tempismo del servizio è corretto e per valutare l’impatto emotivo di ogni fase del percorso del cliente (accoglienza, check in, camera, ordini alimentari, trattamenti spa).

«Si possono avere le migliori decorazioni e attrezzature, ma se non si regalano emozioni, questo non conta», ricorda Gardinier sorridendo. L’area più “insidiosa”, prosegue il manager, resta sempre l’ospitalità. Quando la storia del gruppo è iniziata, ne facevano parte proprietà appartenenti esclusivamente a famiglie che vi risiedevano; il senso di ospitalità quindi era molto forte, come quando si va a visitare la casa di qualcuno. Ora i proprietari sono sempre meno e la sfida è mantenere la stessa sensazione di “entrare in famiglia” con uno staff di esterni che pure, per mantenere il focus sulle relazioni, sulla personalizzazione del servizio, imparano a conoscere i loro ospiti prima che arrivino, grazie alle informazioni raccolte attraverso il programma di riconoscimento degli ospiti chiamato “Always be expected”.

Hotel SUJÁN JAWAI (courtesy of Relais & Châteaux)

Una volta formati gli esaminatori nel modo spiegato più sopra, tocca a valutare gli esaminandi. Il processo di valutazione di una struttura a volte si protrae per oltre un anno e si conclude con il citato colloquio con Gardinier e con una successiva votazione. Chi non passa il vaglio può richiedere una seconda valutazione a distanza di tempo, ma anche chi è ammesso viene sottoposto a ulteriori controlli ogni due o tre anni. E la differenza tra i sommersi e i salvati, a volte, è davvero minima. Per farla capire Gardiener racconta due casi reali. Come modello virtuoso il riferimento è una serata passata al Don Alfonso 1890, in Costiera Amalfitana (Sant’Agata sui Due Golfi, Napoli). 

«Dopo una cena fantastica, con piatti extra basati su prodotti rigorosamente locali, ci hanno fatto visitare la cantina, che si trova in un tunnel pre-romano con via di fuga verso il mare, dove stagionano anche il formaggio. A un certo punto abbiamo visto la proprietaria scappare via, per ritornare dopo pochi minuti, con delle sciarpe per proteggerci dal freddo. Un segno di grande attenzione in una situazione spontanea che riassume l’approccio tipico del gruppo. Per converso, con dispiacere abbiamo dovuto “bocciare” un candidato sulle Alpi che aveva recuperato un castello dopo cinque anni di lavori, ma con un risultato troppo artefatto e di ispirazione internazionale, dissipando lo spirito del luogo. Un’altra bocciatura ha riguardato una magnifica struttura francese, che al suo interno ospitava però un ristorante di cucina asiatica. La coerenza e la tipicità locale vincono sempre, perché consentono esperienze iper locali, possibili solo in un determinato luogo», dice. 

All’interno di questi standard, però il gruppo cerca nondimeno di assecondare i trend, come la gastronomia: sempre più clienti, la cui età media oggi si attesta sui quarantotto anni, chiedono di poter consumare pasti eccellenti ma informali, a dispetto del firmamento di trecentottanta stelle Michelin posseduto dal gruppo. «Le persone vogliono ordinare pochi piatti anziché un intero menù, ed ecco quindi che gli hotel duplicano la loro offerta con un bistrot interno, oltre al ristorante blasonato», rivela Gardinier. Crescente attenzione inoltre viene dedicata alla colazione, «che deve essere memorabile perché è l’ultima esperienza che gli ospiti fanno prima di lasciare l’hotel». Date le premesse, al momento del check out, se gli ospiti dovessero dare un voto al soggiorno, prevedibilmente darebbero il punteggio massimo (molto più alto di quello degli ispettori). Ma il “problema” è: si può davvero valutare qualcosa di unico? 

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