O la va o se ne frega!Lo spregiudicato azzardo politico di Meloni sul premierato

La presidente del Consiglio ha mostrato una insicurezza inusuale sul futuro referendum, frutto del grande rischio politico che sta correndo. Scegliendo la strada del giudizio popolare, difficilmente potrà restare a Palazzo Chigi in caso di sconfitta

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Il clamoroso errore politico e comunicativo di Giorgia Meloni commesso con lo sciagurato «o la va o la spacca» ha portato improvvisamente in primo piano il tema di una inedita incertezza personale della presidente del Consiglio, avvalorata anche da inciampi di politica estera e difficoltà nella politica cronica, come ha spiegato ieri il direttore di Repubblica Maurizio Molinari. 

Si è fatto il paragone con Matteo Renzi. Ma egli nel 2016, segretario del Partito democratico e presidente del Consiglio da due anni – dunque nell’identica condizione di Meloni – era certo di vincere il suo referendum (e mal gliene incolse) tanto da prevedere in caso di sconfitta addirittura l’addio alla politica: sicuro che il Sì avesse prevalso, non disse mai «o la va o la spacca». Lo ha detto invece Meloni, dando l’impressione di mettere nel conto la sconfitta e di volersela giocare un po’ come a dadi: vediamo se mi dice bene. 

In questo modo ha gettato sul terreno un’ombra di incertezza, di ansia, di azzardo, che nell’aggressiva Giorgia finirà non era mai venuta fuori. Poi deve essersi in qualche modo accorta di averla posta male, la questione, e ieri, nella trasmissione di Monica Maggioni alle prese con l’infantilismo burocratico della par condicio, ha se possibile peggiorato la situazione sostenendo che anche se il referendum non passasse chi se ne importa, «io governo cinque anni». 

Delle due l’una: o il premierato è addirittura una legge che «dà una libertà in più al popolo» e quindi contiene in sé addirittura un carico morale – il grado di libertà di un popolo – e allora la sfida è altissima; o è una roba un po’ così, da ingegneria costituzionale, e allora perché vuole il plebiscito popolare? 

Insomma, Meloni nelle sue spiegazioni oscilla, ha preso a traballare persino sul suo terreno preferito ondeggiando tra l’ansia di passare alla storia come la prima presidente del Consiglio eletta dal popolo e il timore di essere mandata a casa con il No al referendum. 

Ormai non può tornare indietro dalla macchinazione che lei stessa ha ordito. Poteva cercare un accordo alto in Parlamento. Ha scelto la strada del giudizio popolare. Bene. Però è molto difficile, per non dire impossibile, che in caso di sconfitta possa restare a Palazzo Chigi: può anche sostenere che il referendum non sarà su di lei ma non può negare che si tratterebbe della bocciatura della sua proposta più importante e per tanti versi la più identitaria. 

C’è poco da fare. Per come si sono messe le cose (complice anche l’ignavia di Forza Italia), il No al premierato sarà letto come un No a Fratelli d’Italia e al Governo, dunque alla leader-premier. Il trucchetto raccontato dal Sole 24Ore di un abbinamento politiche-referendum escogitato ai piani alti di Palazzo Chigi sembra una barzelletta. Secondo questa ipotesi, Meloni potrebbe nello stesso giorno vincere le elezioni e perdere il referendum e quindi non si dimetterebbe: ma che caos sarebbe questo? Il presidente della Repubblica non avrebbe niente da dire su questo abbonamento pasticciato? 

Ma l’aspetto più inquietante delle ultime uscite meloniane va oltre, è di tipo politico-psicologico. Dopo due anni di premiership Meloni non è riuscita a svincolarsi dalla logica schmittiana fondata sull’irriducibile antitesi amico-nemico, il che va a pennello per un capopartito ma non per un presidente del Consiglio: è rimasta insomma la segretaria di Fratelli d’Italia che di fronte a qualunque argomento sente il bisogno di prendersela con la sinistra, o meglio con il Partito democratico (facendo così un grande regalo a Elly Schlein). 

Questa postura militante le toglie, se mai v’è stata, quella patina di superiorità istituzionale di cui qualunque serio capo del governo si trova a beneficiare. Probabilmente sta qui la ragione che impedisce a Giorgia Meloni di proiettarsi sul trenta per cento e oltre, cioè verso una dimensione di vero partito della Nazione, restando invece a lottare coi decimali come un segretario di partito qualunque. Vedremo che cosa succederà nei prossimi mesi, ma le premesse non di una crisi di governo ma dell’avvento di una fase diversa e più aperta ci sono tutte.

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