Punti di vistaQuanto costa essere sostenibili?

Spesso parlando di pianeta e salute non si vuole scendere a compromessi. La realtà ci restituisce però una varietà di colori e pensieri che dovremmo considerare con più consapevolezza

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In medio stat virtus In omnibus fere rebus mediocritatem esse optumam. La virtù sta nel mezzo, insomma. E se gli antichi filosofi, da Aristotele a Cicerone, hanno fatto dell’equilibrio una forza, noi invece viviamo in un’epoca di schieramenti: o si sta da una parte o si sta dall’altra. Non ci sono misure intermedie, né scale di grigio a colorare la nostra esistenza. Siamo forse diventati più passionali? Più carichi di emotività quando si tratta di scelte? Forse. Ed è da questo punto di vista che vogliamo analizzare anche il comportamento di consumo alimentare dell’età contemporanea. 

Oggi stiamo assistendo a un mondo dove le aspettative di vita sono sicuramente più alte, dove il cibo rappresenta esso stesso uno strumento per migliorare la qualità dell’esistenza umana, proprio in virtù di una storia industrializzata che ci ha portato a vivere di abbondanza e di eccessi tali da compromettere anche il nostro stato di salute, soprattutto in occidente. Ecco spiegato in breve anche la crescita esponenziale di stili alimentari che condannano il consumo di prodotti di origine animale, privilegiando una dieta vegetale. Secondo le associazioni di settore, nel mondo ci sarebbero circa cento milioni di persone che seguono un regime vegano e altri 800 milioni quello vegetariano, con tutte le declinazioni del caso: con o senza latticini e uova, alcuni inserendo come parte animale i prodotti del mare. 

Vivremmo tutti meglio se eliminassimo la carne dalla nostra dieta? Probabilmente la risposta data di getto sarebbe positiva. Ci sono però dei ma, che è giusto considerare e che ci riportano alle massime latine dell’inizio di questo articolo: la virtù sta nel mezzo, anche quando si tratta di consumo di carne. 

«Adottare una dieta flexitariana è una scelta salutare e sostenibile. Dare molta varietà alla propria dieta permette di assumere tutti i nutrienti necessari per rimanere in salute. La miglior dieta flexitariana è la dieta mediterranea che è diventata patrimonio dell’UNESCO nel 2010 e i cui benefici sono evidenti, ma molto spesso sottovalutati. In Italia, ad esempio, si ha un’aspettativa di vita superiore di cinque anni rispetto agli Stati Uniti». A parlare sono Filippo Sironi e Gianmarco Venuto, co-founder de Il Mannarino, un progetto gastronomico basato su macelleria con cucina, nato dai due imprenditori, che hanno deciso di portare nel capoluogo lombardo i sapori e i ricordi del loro territorio pugliese. Facile, si potrebbe obiettare: chi vende carne non può affermare che la carne faccia male. Invece è qui che ci scontriamo con i primi dubbi.

È vero, Il Mannarino vende carne, la serve nei suoi locali, ne ha fatto un cavallo di battaglia e un obiettivo imprenditoriale, ne ha costruito intorno una storia di condivisone di cibo e di piacere. Questo non toglie però che si possa creare un progetto imprenditoriale di questo tipo associato a una visione che vede al primo posto la sostenibilità, intesa come sostenibilità legata al pianeta ma anche alla salute dell’uomo e degli animali. Tanto da aver voluto lanciare pochi giorni fa un manifesto sulla filiera, iniziando anche ad allevare animali propri, in collaborazione con piccoli produttori italiani, che rappresenta un disciplinare in grado sia di avere un controllo vero e pieno sulla produzione, ma anche di riuscire a diffondere una corretta conoscenza e divulgazione su questo settore. 

Consumo di carne, sì, ma nella giusta misura quindi. Come d’altronde suggerisce e consiglia anche l’Oms, che prende per giusta l’assunzione di cinquecento grammi di carne rossa alla settimana, in alternativa alle carni bianchi e alle altre fonti di proteine, sia vegetali che animali. Questo perché comunque la scelta corretta sarebbe quella di focalizzarsi sempre su basi scientifiche, lasciando magari da parte i mass media, che spesso ci propongono modelli di consumo legati alle tendenze o privi di validi fondamenti.

Ha fatto molto discutere, ad esempio, il documentario su Netflix, in cui 22 coppie di gemelli hanno seguito per un periodo uno una dieta vegana e l’altro una flexitariana: i risultati ovviamente sono scontati, soprattutto se consideriamo che è stato prodotto dalla Ops (Oceanic Preservation Society), organizzazione no profit, che ha l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica sull’ambiente e che parte dal presupposto che le cose siano sempre o nere o bianche. Legato a questo, si faceva riferimento anche a uno dei luoghi della Blue zone, quella dei centenari per intenderci, situato negli Stati Uniti, a Loma Linda, dove sorge il primo fast food americano, ma dove gli abitanti hanno adottato una dieta vegana e si sono trasformati in detentori dell’elisir di lunga vita.

Anche su questo ci sarebbe da discutere, perché gli abitanti delle Blue Zone non sono centenari solo per il mancato consumo di alimenti di origine animale (assunto non valido in toto), ma lo sono anche per tutta un’altra serie di dettagli, tra cui il contesto sociale e l’attività fisica. In realtà poi la popolazione americana soffre di disturbi metabolici a causa dell’eccessivo processo produttivo dei cibi industriali, che non si è risolto con la creazione di surrogati vegetali al posto di quelli animali, ma anzi in questo la Gdo e le industrie sono spesso colpevoli di aver fatto nascere un nuovo filone di consumismo, anch’esso pieno di additivi e conservanti, nonostante la presenza di ceci, broccoli e soia. 

Detto questo abbiamo trovato un interessante articolo della BBC, in cui si prospettano diversi scenari relativi a un mondo in cui, improvvisamente, il consumo di carne viene  interrotto. «Nei Paesi industrializzati, il vegetarianismo porterebbe ogni sorta di beneficio ambientale e sulla salute. In quelli in via di sviluppo ci sarebbero effetti negativi in termini di povertà»: le parole di Andrew Jarvis, del Centro internazionale di agricoltura tropicale della Colombia, cercano di introdurci al paradosso. Vero è che i vantaggi per l’ambiente, se interrompessimo gli allevamenti, sarebbero impattanti, soprattutto sul consumo di acqua e le emissioni di gas serra. Qualcuno si spinge oltre affermando che i terreni potrebbero essere riconvertiti all’agricoltura, favorendo sia il sostentamento umano, sia la riossigenazione dell’ambiente. Ci sono però diversi dubbi su tutte le tesi, e questo proprio perché la virtù sta nel mezzo, ci teniamo a ribadirlo., 

Intanto una dieta priva di alimenti di origine animale potrebbe non essere sana del tutto per il nostro corpo, come ci ricorda anche Nicholas Gulli, dottore in biotecnologie mediche e farmaceutiche: «Le proteine rappresentano uno dei tre principali macronutrienti, insieme a carboidrati e grassi, necessari per lo svolgimento di svariati processi metabolici e fisiologici. Quindi il consumo di protidi non solo è fondamentale per attuare tali funzioni, ma è necessario per assumere nove dei venti amminoacidi essenziali (EAA), dato che il nostro organismo non è in grado di sintetizzarli autonomamente. Pertanto a seconda della tipologia di fonte proteica da noi scelta, la quantità di amminoacidi essenziali sarà diversa.

Questo è evidente quando si confrontano due tipologie di diete diverse: onnivora e vegana. Gli onnivori, utilizzando anche fonti animali, possono beneficiare di un apporto di EAA maggiore e vario rispetto all’assunzione di esclusive fonti vegetali, garantendo così non solo uno spettro amminoacido completo, ma anche l’esclusione di eventuali carenze. Ragion per cui la popolazione vegana presenta non solo carenze in EAA, ma anche di micronutrienti come la vitamina B12, calcio, iodio, zinco e omega-3. Tuttavia, anche seguendo una dieta onnivora, è necessario alternare le diverse fonti proteiche. In particolare, secondo la World Cancer Research Fund, è preferibile limitare il consumo di carne rossa a cinquecento grammi a settimana e, se possibile, alternarlo a quello di carni bianche, in quanto il profilo lipidico, proteico e vitaminico di quest’ultime risulta migliore e completo». 

In secondo luogo, eliminare allevamenti e consumo di carne potrebbe non essere così economicamente vantaggioso. Bisognerebbe, ad esempio, considerare la scomparsa di miliardi di animali da pascolo, con tutte le conseguenze in termini di biodiversità e sull’economia globale. Così come ci sono aree della terra che non sono coltivabili. Ci si è provato, ma con risultati tragici: pensiamo agli abitanti di alcune zone del Sahel, dove la sussistenza è data principalmente dalla pastorizia. Un cambio di rotta radicale li renderebbe schiavi delle importazioni, con tutte le conseguenze del caso.

Allo stesso modo è bene anche ricordare che in Italia (non andiamo molto lontano) ci sono circa 3,5 milioni di ettari di terreni agricoli inattivi, cioè improduttivi da almeno tre anni, dovuti al fatto che la filiera industrializzata dell’agricoltura ha costretto i coltivatori ad abbandonare le terre per mancanza di redditività: ergo, sarebbe bello avere più campi a disposizione per frutta e verdura, ma non è detto che questo poi sfami davvero chi li coltiva.

Da aggiungere, infine, che spesso la nostra alimentazione vegetale è supportata da tutti quei cibi che arrivano nei nostri paesi da lontano, andandone a impoverirne altri o provocando scompensi ambientali: si pensi alla quinoa andina o agli avocado, che devono essere presenti nei nostri pasti contemporanei per essere salutari. Anche in questo caso, la virtù sta nel mezzo e dovremmo rifletterci tutti e più consapevolmente. Perché quell’immenso patrimonio di colori che il mondo ci ha donato va preservato, su tutti i fronti. Questo vuol dire essere davvero dalla parte della sostenibilità. 

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