Agli italiani piace ancora lamentarsi, ma evidentemente un po’ meno di prima, soprattutto se rispondono a rilevazioni ufficiali come quelle dell’Istat. Assieme all’eccezionale aumento dell’occupazione, che del resto c’entra molto con il tema in questione, la crescita del grado di soddisfazione per la vita tra i nostri connazionali è il trend più clamoroso degli ultimi anni.
I dati parlano chiaro: nel 2023 sono stati il 46,7 per cento coloro che hanno dato un voto molto alto, tra otto e dieci, alle proprie condizioni generali, mettendo insieme la situazione economica, quella relazionale, la percezione della propria salute. Nel 2022 erano stati il 46,2 per cento, prima del Covid, nel 2019, il 43,2 per cento e undici anni fa, al culmine della crisi economica, solo il trentacinque per cento.
Si tratta degli effetti di lungo periodo del sollievo per l’uscita da un’emergenza, quella pandemica, che all’inizio sembrava molto più life-changing, Oppure è l’esito della rassegnazione, per cui oggi a parità di situazione il giudizio è più positivo perché ci si è abituati a condizioni peggiori di vita?
In realtà sembra che stia accadendo qualcosa di diverso e più profondo, anche perché il cambiamento di percezione è piuttosto trasversale e interessa tutte le età e i segmenti sociali. Naturalmente sono i più giovani quelli che si dichiarano maggiormente appagati, ma è aumentata anche la soddisfazione degli anziani e di coloro che sono di mezza età.
Le stesse dinamiche si notano se distinguiamo per titolo di studio. Sale la soddisfazione di tutti, non solo dei laureati, per cui, anzi, nel 2023 c’è un piccolo calo, ma anche di chi si è fermato alle scuole medie, se non alle elementari. Anche per questi ultimi in dieci anni c’è stato un progresso di circa dieci punti.
Il miglioramento più intenso, in particolare, è quello che ha interessato i giovani meno istruiti, quelli che soffrono maggiormente le fasi di crisi economica perché sono i primi a perdere il lavoro, essendo di frequente precari e assunti in settori fragili, a basso margine.
Per i venticinque-quarantaquattrenni con la licenza media anni la percentuale di coloro che si dice molto soddisfatta è passata, tra il 2013 al 2023, dal 29,3 al 48,7 per cento. Nel caso di coloro che si sono fermati alle elementari dal 18,9 al 37,6 per cento. È altamente probabile, quindi, che parliamo anche di immigrati.
Questi numeri, ovvero i progressi più decisi proprio per chi è strutturalmente in condizioni di fragilità, nonché gli andamenti delle curve dei grafici così simili a quelli della crescita del Pil e dell’occupazione, sembrano suggerire che l’economia c’entri molto con la soddisfazione esistenziale. Forse i soldi e, soprattutto, un posto di lavoro non fanno la felicità, ma probabilmente tengono più lontana l’infelicità.
Una conferma viene dai dati raccolti per condizione professionale. È apparentemente contro intuitivo, ma in realtà perfettamente logico, che a vedere un miglioramento maggiore qui siano stati coloro che un posto non ce l’hanno ancora, i disoccupati che ne cercano uno dopo averlo perso oppure quelli che devono ancora cominciare a lavorare. In quest’ultimo caso in dieci anni la percentuale dei molto soddisfatti è passata dal 20,2 al 37,7 per cento, mentre per i primi dal ventidue al 35,1 per cento.
Anche nel paragone con il 2019 questa tendenza è evidente. È proseguito l’incremento generale della soddisfazione per la vita e ha interessato di più, con un aumento del 6,9 per cento in soli quattro anni, proprio i disoccupati, molto più di quelle categorie che presentavano valori alti già in precedenza, come quadri, impiegati e studenti. La ragione, molto probabilmente, è che la maggiore occupazione, la facilità nel trovare un lavoro spinge all’ottimismo soprattutto coloro che lo stanno cercando.
Altra conferma, la soddisfazione è cresciuta di più in quelle aree del Paese originariamente in condizioni più precarie, come Calabria e Campania (+7,1 e +7,6 per cento in quattro anni), o in declino, come la Liguria (+7,8 per cento). Mentre laddove le cose andavano già piuttosto bene dal punto di vista occupazionale ed economico, come Lombardia e Trentino – Alto Adige, i cambiamenti sono stati pochi.
L’Istat, del resto, lo dice esplicitamente: è proprio la situazione economica ad avere cambiato le cose: c’è stata qualche variazione per la soddisfazione per le relazioni amicali, in leggera discesa dopo il 2019 soprattutto per i giovani, e in quella per la salute, in miglioramento tra gli anziani e in calo per gli altri. Ma i progressi maggiori riguardano proprio l’economia, con coloro che si sono detti molto o abbastanza soddisfatti che sono passati dal 40,1 per cento del 2013 al 56,5 del 2019 e nel 2023 erano il 59,4 per cento, il dato più alto dal 2002.
A trainare l’aumento sono soprattutto i ventenni, con incrementi superiori al venti per cento in un decennio e tra i più significativi tra il 2019 e il 2023.
Non è un caso che il tasso di occupazione di chi ha tra i venticinque e i trentaquattro anni, ovvero di chi ha appena finito gli studi e ha iniziato una carriera, sia passato dal 59,7 al 68,1 per cento. Anche grazie a fattori demografici oggi i giovani sanno che è più facile trovare lavoro e un lavoro spesso soddisfacente.
L’Istat, infatti, misura pure il grado di soddisfazione per il lavoro, è cresciuto anch’esso nel tempo. È interessante, se nel 2008 questo aumentava all’aumentare dell’età, con un minimo per i giovani tra i venti e i ventiquattro anni, e un massimo per i sessantenni, adesso le cose sono cambiate. Nel 2023 i più felici del proprio impiego sono stati i lavoratori tra i trentacinque e i quarantaquattro anni, mentre dopo questa età si verificava un calo della soddisfazione, che ritornava a salire in vicinanza della pensione. Ma, soprattutto, ancora una volta è evidente come il maggiore incremento del benessere lavorativo riguardi chi ha meno di trentacinque anni, con aumenti intorno all’otto e nove per cento in dieci anni.
Queste statistiche ci dicono innanzitutto che la vita reale è diversa dai social e dal chiacchiericcio comune, che la popolazione sta meglio di quanto dica di stare quando si esercita nei mugugni di rito. Ci dicono anche che i dati sull’aumento dell’occupazione, di cui si parla poco nel dibattito pubblico, e quelli, ancora più sconosciuti, sulla crescita dei posti a tempo indeterminato alla fine hanno un impatto concreto e, forse, contribuiscono a spiegare anche la stabilità politica che viviamo, con una maggioranza che ha all’incirca gli stessi voti che aveva alle elezioni di venti mesi fa. Anche se, lo sappiamo, il merito dei dati occupazionali è degli esecutivi dello scorso decennio, soprattutto di quello che ha realizzato il Jobs Act che oggi inopinatamente alcuni vogliono abolire per referendum.
A proposito di governi, a non essersi accorto, apparentemente, di quello che è accaduto sembra essere l’attuale esecutivo. Ripropone ricette tipiche di periodi ad alta disoccupazione, come Superbonus assunzioni al centoventi per cento e le decontribuzioni, nonostante la percentuale di chi cerca lavoro e non lo trova sia molto bassa per gli standard italiani, al 7,2 per cento e il problema stia, invece, diventando il mancato reperimento di personale specializzato.
Siamo davanti all’ennesimo spreco, a un grande costo opportunità, perché si tratta di risorse che potrebbero essere utilizzate, per esempio, per aiutare le imprese ad avvicinarsi alla frontiera tecnologica, così da offrire un impiego di sempre maggiore qualità, visto che la battaglia per la quantità, forse, la stiamo vincendo. Del resto lo abbiamo capito, la soddisfazione dei cittadini passa per il lavoro.