Ormai da dieci anni tra i temi principali del dibattito politico europeo c’è il tema degli Spitzenkandidaten. Non è una parolaccia, ma un termine tedesco che possiamo tradurre con “candidati di punta” e che designa un sistema per le elezioni del Parlamento europeo, difeso dagli stessi deputati di Strasburgo ma, come vedremo, piuttosto controverso. Al punto che non è mai stato pienamente applicato, e probabilmente non lo sarà nemmeno stavolta. Andiamo con ordine.
In sostanza, questo meccanismo prevede che ciascun partito europeo nomini un candidato alla presidenza della Commissione prima di avviare la campagna elettorale: dopo il voto, chi vince insedia il proprio candidato al tredicesimo piano del Berlaymont, il palazzo che ospita appunto l’esecutivo comunitario. Secondo Martin Schulz, l’ex presidente dell’Eurocamera dal cui cilindro è scaturita questa invenzione alla vigilia delle europee del 2014, il sistema degli Spitzenkandidaten dovrebbe servire ad avvicinare i cittadini alla macchina complessa della politica dell’Ue replicando a Bruxelles le dinamiche tipiche delle competizioni elettorali nazionali, quando l’elettorato conosce in anticipo i candidati premier dei partiti che si presentano alle urne.
Tuttavia, qualcosa di problematico c’è. Il trattato sull’Unione europea (Tue) prescrive che il Consiglio europeo, deliberando a maggioranza qualificata, nomina il timoniere dell’esecutivo comunitario «tenuto conto delle elezioni del Parlamento europeo». Il presidente in pectore deve poi venire approvato dagli eurodeputati, a maggioranza semplice (se i deputati non “eleggono” il candidato nominato dai leader, questi devono proporne un altro).
Ora, che i capi di Stato o di governo dei Ventisette debbano tenere in considerazione i risultati delle urne significa che la loro scelta deve ricadere su qualcuno che possa ottenere il supporto di una maggioranza parlamentare. Non significa, invece, che possano vincolarsi anticipatamente a una rosa di nomi già preconfezionata per loro dai partiti europei.
Il punto è che la legittimità formale del presidente della Commissione poggia su due gambe: da un lato, viene nominato dai leader dei Paesi membri, loro stessi eletti democraticamente; dall’altro, viene confermato dal Parlamento, eletto a suffragio universale diretto da tutti i cittadini dell’Unione. Legare le mani al Consiglio europeo, negandogli la prerogativa di selezionare il profilo che ritiene più adatto al ruolo, finirebbe con l’azzoppare tale legittimità, anziché aumentarla.
Il discorso è parecchio più complesso da un punto di vista legale, ma basti ribadire che in un’Unione basata sul precario equilibrio tra il principio intergovernativo e quello sovranazionale, imporre un automatismo come quello richiesto dal meccanismo degli Spitzenkandidaten rischia di essere una forzatura istituzionale, che assume i contorni di una vera e propria illusione costituzionale. Se portata alle sue conseguenze, infatti, questa interpretazione disinvolta delle disposizioni dei trattati sovverte l’equilibrio dei poteri, spostando il baricentro politico dell’architettura comunitaria a tutto vantaggio dell’Eurocamera, facendo pendere l’intero sistema verso la parlamentarizzazione.
Del resto, le alterne fortune di questo meccanismo testimoniano la debolezza delle basi sulle quali lo si è provato ad innestare. Dieci anni fa, sembrò che il Parlamento avesse vinto il suo braccio di ferro contro il Consiglio europeo, forzandolo a nominare Jean-Claude Juncker, Kandidat del Partito popolare europeo (Ppe). Ma era un’illusione ottica, una parallasse politica: i leader dei Ventisette nominarono Juncker perché il suo profilo era solido e metteva tutti d’accordo, non perché l’aveva proposto il Ppe.
Nel 2019, invece, le stelle non si allinearono. I Popolari arrivarono ancora primi ma il loro Kandidat, il capogruppo a Strasburgo Manfred Weber (nonché presidente del Ppe), fu scartato perché inviso a troppi leader nazionali e ritenuto incapace di ottenere un sostegno sufficientemente ampio in Aula. Al suo posto, come sappiamo, fu paracadutata sullo scranno più alto del Berlaymont la semisconosciuta Ursula von der Leyen, dopo che l’allora cancelliera tedesca Angela Merkel tentò di resuscitare il meccanismo inventato dal connazionale Schulz proponendo (senza successo) di insediare al Berlaymont il Kandidat socialista, Frans Timmermans.
La mossa del cavallo la fece il presidente francese Emmanuel Macron, che aveva appena scompigliato il campo liberale alle europee e aveva a disposizione un capitale politico di tutto rispetto. Dopo una serie di vertici inconcludenti, monsieur le Président riuscì a ottenere la sponda di Merkel per nominare l’ex ministra della Difesa di Berlino nonché compagna di partito di Die Kanzlerin (entrambe provengono dalla Cdu, la delegazione nazionale più folta del Ppe). Von der Leyen fu poi approvata dagli eurodeputati per un soffio, con un margine di soli nove voti rispetto alla soglia necessaria.
E oggi? A meno di due settimane dal weekend elettorale, l’impressione è che tra gli Spitzenkandidaten la più solida sia proprio la presidente uscente del Collegio. Ma il bis della candidata del Ppe arriverà solo se il Consiglio europeo deciderà di concederglielo. E questo, a oggi, non si può dare per scontato.
La premier italiana Giorgia Meloni darebbe probabilmente la luce verde, dato l’asse politico che pare essersi consolidato tra le due con von der Leyen che ha esplicitamente aperto la porta agli “elementi sani” dei Conservatori e riformisti europei dell’Ecr (a partire proprio da Fratelli d’Italia). Non si può invece dire lo stesso degli altri leader più in vista, come Macron e il cancelliere tedesco Olaf Scholz. Ma potrebbe mettersi di traverso, tra gli altri, anche il primo ministro spagnolo Pedro Sánchez.
Nonostante siano state smentite dall’Eliseo le dichiarazioni di Pascal Canfin, eurodeputato macroniano molto vicino al presidente francese, è evidente che Parigi vuole l’ex premier italiano Mario Draghi alla guida della prossima Commissione. Il profilo dell’ex numero uno della Bce è in linea con le priorità politiche transalpine (dalla questione degli investimenti paneuropei alla competitività, passando per il debito comune e l’autonomia strategica, tutti cavalli di battaglia anche di Macron), e il suo è indiscutibilmente uno dei nomi più autorevoli in lizza.
Ma per quanto possa ottenere favori trasversali, la nomina di “Super Mario” non è per niente in discesa. Anzitutto, non è affiliato a nessuna famiglia politica europea, il che complicherebbe ulteriormente i già difficili negoziati per riempire tutte le cariche apicali del prossimo ciclo istituzionale (la presidenza della Commissione ma anche quella del Consiglio europeo, nonché l’Alto rappresentante per la politica estera). C’è poi chi sostiene che Draghi sarebbe eccessivamente “ingombrante” e oscurerebbe le cancellerie nazionali, che quindi sarebbero riluttanti a piazzarlo al timone dell’esecutivo comunitario.
Soprattutto, Draghi dovrebbe assicurarsi l’appoggio cruciale di Roma e di Berlino. Giova ricordare a questo punto che le valutazioni geografiche contano almeno quanto quelle partitiche durante questi negoziati. Ciò significa che Meloni potrebbe rinunciare senza troppi patemi a nominare uno dei suoi (ad esempio il vicepremier forzista Antonio Tajani o i fedelissimi Raffaele Fitto, Francesco Lollobrigida o Guido Crosetto) come commissario “semplice” se l’alternativa è riportare alla guida della Commissione un italiano, anche se politicamente non troppo vicino a lei (e che nonostante ciò la aiutò non poco durante la transizione a Palazzo Chigi).
D’altro canto, la nomina della presidente uscente della Commissione potrebbe essere ostacolata proprio dal suo connazionale Olaf Scholz, il cancelliere socialdemocratico che evidentemente teme più la normalizzazione dell’estrema destra continentale (che aprirebbe le porte alla normalizzazione di Alternative für Deutschland in Germania, attualmente secondo partito nei sondaggi) di quanto non desideri una tedesca al Berlaymont. Negli ultimi giorni si sono infatti moltiplicati gli appelli da parte dei partiti che sostengono la coalizione semaforo al governo a Berlino (socialdemocratici, liberali ed ecologisti) affinché von der Leyen non ceda alla tentazione di lavorare con la destra radicale dell’Ecr, minacciando di ritirare il loro appoggio ad un secondo mandato della presidente uscente.
Staremo a vedere. In questo momento, le carte sono ancora relativamente coperte. Quasi sicuramente, come primo tentativo il Consiglio europeo sonderà la fattibilità del bis della presidente uscente durante il vertice informale in calendario per metà giugno. Per quella data, si saprà come saranno andate le elezioni e si potrà avere un’idea più chiara delle reali chances che Strasburgo supporti la Kandidatin del Ppe.
Ma se i leader dovessero presagire che quello è un binario morto, allora si riaprirebbe la partita e si tornerebbe al liberi tutti, probabilmente cercando di chiudere il risiko delle nomine al summit di fine giugno. Oltre a quelli di von der Leyen e Draghi, circolano da tempo anche altri nomi papabili per ottenere il top job dell’Ue: dall’estone Kaja Kallas (liberale) al romeno Klaus Iohannis (Ppe), dal portoghese António Costa (socialista) al croato Andrej Plenković (Ppe).
Se andrà così – un’eventualità tutt’altro che remota – potremo dire definitivamente addio a quel meccanismo degli Spitzenkandidaten che sta tanto a cuore agli eurodeputati ma che, per com’è stato proposto finora, appare poco più che uno specchietto per le allodole, un sofisticato inganno che si traduce in realtà in una cortina di fumo negli occhi degli elettori dei Ventisette. E che, in effetti, forse non è mai stato realmente applicato.