La campagna elettorale per le elezioni Europee dell’8 e 9 giugno è diventata ormai molte settimane fa un referendum su leader di partito, amministrazioni locali e programmi nazionali. Non c’è spazio per parlare dei futuri parlamentari europei, quelli che verranno eletti con questo voto, non c’è spazio per parlare delle prospettive dell’Unione, delle sfide globali che dovrà affrontare, delle difficoltà delle sue istituzioni e degli Stati membri. Non si parla mai di Europa intesa come identità politica, culturale, valoriale e storica da proteggere. Eppure è questa che viene messa in discussione, e viene attaccata, quando si difendono autocrazie, sistemi illiberali, antisemitismo e altre ideologie opposte ai valori occidentali.
Alla politica italiana non sembra interessare. La cultura e i valori dell’Europa vengono derubricati a dettaglio marginale in ogni campagna elettorale, non da oggi. Sembra aver fatto eccezione Matteo Renzi, che la settimana scorsa ha aperto la campagna elettorale degli Stati Uniti d’Europa al Teatro Dal Verme di Milano con un discorso asciutto, diretto, durato circa un’ora, in cui ha parlato di teatro, radici culturali, identità europea: «Gli Stati Uniti d’Europa o saranno basati su un grande orizzonte culturale, su una grande scommessa culturale, o non saranno», ha detto il leader di Italia Viva lanciando la sua candidatura.
«Chi ha capito perfettamente l’importanza dell’identità culturale europea – ha aggiunto Renzi – sono i terroristi islamici, sono loro che colpiscono il Bataclan nel 2015, che colpiscono in Israele i giovani a un rave party e colpirono i giovani al teatro di Palmira. Gli estremisti islamici hanno capito che combattere contro ciò che noi siamo significa distruggere la nostra cultura. Sapete chi non se n’è accorto? Chi pensa che la cultura sia roba di serie b, chi pensa che una biblioteca o la poesia o la filosofia non servano a niente. Per noi gli Stati Uniti d’Europa sono le radici greche e romane della nostra storia».
Di solito i discorsi delle campagne elettorali sorvolano il dibattito sul futuro dell’Europa e sui suoi valori limitandosi a un condensato di luoghi comuni e frasi di plastica. In pochi parlano di luoghi di cultura, di teatri, musei, biblioteche, nessuno presenta una reale strategia, ci si limita ricordare agli elettori il numero di siti Unesco, l’attrattività dell’Italia all’estero e l’indotto delle risorse culturali. Poi si cambia argomento.
«Mi chiedo perché in nessun cartellone elettorale e in nessun manifesto si parla di cultura, ancora meno compare la parola teatro», dice a Linkiesta Andrée Ruth Shammah, direttrice del Teatro Franco Parenti di Milano. «Il teatro è l’agorà, il luogo del pensiero, delle idee e dei dibattiti. E in un’epoca in cui i valori dell’Europa sono messi in discussione avrebbe bisogno di ritrovare protagonismo».
C’è un vecchio articolo di Giorgio Strehler, regista teatrale, direttore artistico nonché senatore, morto nel 1997, in cui l’Europa viene descritta come pluralità di mondi, di idee e di culture che convivono e condividono uno stesso spazio formando un patrimonio comune. «C’è un ideale umanistico tenacemente radicato nel cuore di tutta l’Europa, c’è un tema che unisce le culture diverse dell’Europa nel nome di coloro che hanno fatto uomini moderni, e questo “basso continuo” è al tempo stesso nazionale ed europeo. Forse più europeo che nazionale, tale è il numero degli scambi reciproci, delle influenze reciproche, cosicché a me sembra quasi che non possiamo esistere nel cerchio delle nostre specifiche culture, gli uni senza gli altri», scriveva Strelher. Era il 1979. Quei valori sono ancora quelli dell’Unione europea, dell’Europa degli anni Venti del Duemila. Ma nessuno ha più la forza, o la voglia, di dirlo.
Renzi non è l’unico ad aver lanciato la sua campagna elettorale da un teatro. Ma è l’unico che non ha usato il teatro solo come edificio, come luogo fisico. Venerdì 10 maggio anche Giuseppe Conte ha riempito il Dal Verme di Milano, qualche giorno prima Letizia Moratti, capolista di Forza Italia, aveva aperto la campagna elettorale al Teatro Manzoni. Ma nei loro discorsi non hanno parlato di cultura, di teatro, di spettacolo.
È un vecchio vizio della politica italiana, la cultura è uno strumento come un altro, da usare per parlare della grandezza del Paese, della sua «storia straordinaria» (virgolettato attribuibile a chiunque), ma nessuno propone investimenti, strutture, programmi. «Purtroppo il teatro è usato dalla politica come contenitore», dice Shammah. «È solo un luogo fisico in cui fare propaganda elettorale, ma escluso questo legame molto materiale non c’è altro, non c’è scambio di idee, cultura, integrazione»
Anche alle elezioni di settembre 2022, quelle che hanno portato all’attuale maggioranza di governo, non c’era molto teatro, né cultura, nei programmi. Alcuni partiti, come Lega e Fratelli d’Italia, citavano diverse proposte, ma con poche informazioni sull’implementazione e sui finanziamenti; Movimento 5 stelle e Partito democratico citavano il tema in maniera piuttosto sporadica e scarna. E già un anno prima, a settembre 2021, Annalisa Camilli scriveva su Internazionale che la cultura e il teatro non erano un argomento nemmeno alle amministrative di Roma.
«Il dramma di quest’epoca, che secondo me è solo un’ubriacatura, è che gli intellettuali, il mondo delle idee e della cultura non possono restare in silenzio quando vedono gli studenti universitari aggredire gli ebrei, giustificare Hamas o il regime iraniano», dice Shammah. L’ubriacatura dell’Occidente però prima o poi dovrà finire, prima o poi passerà. Ma passerà solo se nei luoghi della condivisione di idee – a partire dai teatri per arrivare alle piazze – si mettono al centro i valori. «In quest’ubriacatura cerchiamo delle voci autorevoli che non gridano, ma parlano, per fare una controffensiva a chi attacca i nostri valori».