Esistono due modi di leggere i risultati elettorali: come termometro degli umori dell’elettorato o in relazione agli organismi elettivi che ne vengono formati. Le due letture ovviamente non si escludono, ma avvengono su piani diversi. Proviamo, allora, a capire cosa è successo in Europa, partendo proprio dagli equilibri a Bruxelles.
La coalizione uscente popolari-socialisti-liberali conserva una solida maggioranza: quattrocentotré seggi rispetto ai trecentosessantuno necessari. Più di quanto risultasse dalle previsioni (il poll of polls di Politico.eu si fermava a trecentonovantuno), ma comunque meno dei quattrocentodiciassette uscenti, peraltro con un parlamento di settecentocinque membri, quindici meno degli attuali. La maggioranza regge, ma con perdite non banali e un forte rimescolamento interno. Altro dato importante, i liberali con ottanta seggi sono la terza forza del parlamento, dopo popolari e socialisti e sopra i conservatori di Ecr (settantatré).
Comunque, all’interno della maggioranza gli equilibri si sono già spostati: i popolari guadagnano nove seggi, i liberali ne perdono ventitré (in primo luogo per effetto del disastro di Macron, che era un po’ il dominus del gruppo), i socialisti due. Il risultato di maggiore importanza, più ancora dei guadagni dei conservatori di Ecr (quattro seggi) e dell’estrema destra di Id (nove seggi), è il crollo dei verdi: meno diciannove seggi, da settantuno a cinquantadue.
Primo, con questi presupposti, c’è da aspettarsi un generale spostamento dell’asse delle politiche europee e delle parole d’ordine dei prossimi piani della Commissione. Se fino a oggi il mantra era la transizione green+digital, è probabile che il prossimo mandato metta da parte il clima (che continuerà a giocare un ruolo, ma non così prevalente) in favore di temi più industriali e politici, che possono trovare un punto di raccordo nella riorganizzazione della difesa (in primo luogo, del procurement) e di logistica e infrastrutture.
Secondo. Un elemento chiave della prossima agenda europea sarà il famoso Rapporto Draghi: un progetto di “cambiamento radicale” nella politica industriale, che si svolge su tre filoni principali: promuovere le economie di scala; integrare, a livello comunitario, investimenti e servizi pubblici, cui si riconosce una nuova centralità, soprattutto come capacità di indirizzo del mercato e di fornitura di capacità strategiche (come la rete di supercomputer europei); assicurare l’approvvigionamento di materie prime critiche, anche con la ridefinizione delle filiere di approvvigionamento.
Un cambiamento davvero radicale, nel doppio senso di una brusca accelerazione del progetto federale (l’Unione europea come super Stato, in esplicita concorrenza con Stati Uniti e Cina) e di una guida pubblica (e politica) dell’economia, che è logica conseguenza delle crisi degli ultimi anni: debito sovrano, Covid, invasione dell’Ucraina, Medio Oriente. Si tratta di una prospettiva strategica e di una necessità storica, che la continuità della maggioranza parlamentare centrista ed europeista assicura, ma che è portata avanti essenzialmente in modo tecnocratico, attraverso le strutture amministrative comunitarie.
Terzo. E qui si trova il problema vero, lo gnommero che a vario titolo affligge le democrazie e quindi l’Occidente: oggi il pendolo della politica economica sta passando dal liberismo globalista a forme di intervento pubblico, per una fase che si preannuncia di non breve durata. Tanto che chi blatera di Ue globalista, come Marine Le Pen, non si accorge di abbaiare alla porta sbagliata: i veri globalisti, oggi, stanno in Cina e, in modo ulteriormente perverso, in Russia.
Tornando a noi, lo gnommero sta nel fatto che questa fase di intervento pubblico, a differenza della precedente, avviene nella sostanziale assenza di corpi intermedi (sindacati, istituti pubblici, rappresentanze di interessi, centri di investimento ecc.) all’altezza della situazione e nell’assenza di soggetti politici effettivamente rappresentativi del mondo del lavoro, come mostra la perenne crisi di identità dei diversi partiti socialisti e, ancor più, della sinistra radicale, ridotta a un simulacro del suo passato.
Non a caso Draghi ha tenuto questo discorso alla High-level Conference on the European Pillar of Social Rights: i toni con cui si è rivolto alla platea indicano l’urgenza di ricostruire questa interlocuzione («Uno degli attori più importanti al riguardo sarete voi, le parti sociali. Siete sempre stati fondamentali nelle fasi di cambiamento e l’Europa farà affidamento su di voi per contribuire ad adattare il nostro mercato del lavoro all’era digitale e rafforzare i nostri lavoratori»).
Si tratta, insomma, di formare o ricostruire una rete di soggetti sociali qualificati in continuo dialogo tra loro, capaci di elaborare una visione condivisa almeno nelle grandi linee e di non arroccarsi nella difesa delle rendite di posizione, cui sembrano essersi rassegnati molti residui della vecchia economia sociale di mercato. Corpi intermedi efficienti e aperti sono anche il miglior antidoto a rischi di deriva statalista, visto che mal sopportano il dirigismo dall’alto e sono tenuti a un livello di responsabilità pubblica che impedisce la spesa a pioggia.
In assenza di una sorta di cabina di regia allargata, cui partecipino le istituzioni europee, i governi nazionali, le imprese e le parti sociali, si corre il rischio di una gestione dall’alto, in cui crescano le resistenze, le pulsioni identitarie e il rifiuto della dimensione europea, a tutela delle rendite di posizione: in altre parole, il brodo di coltura del populismo sovranista e dei suoi danti causa.
Quarto. Questo è l’orizzonte su cui si dovrà misurare la prossima Commissione. Una prima indicazione che si intende davvero proseguire su questa via sarebbe la nomina di Draghi a presidente del Consiglio europeo, accanto alla ormai quasi scontata riconferma di von der Leyen alla Commissione. Ma non è, ovviamente, solo questione di nomi: il risultato elettorale è chiaro ma non così traumatico, a livello europeo. Bisognerà tenerne conto, chiaro, ma il punto di partenza è che nell’Europa di oggi le forze europeiste sono largamente maggioritarie e che solo un rafforzamento della spinta federalista potrà garantire il mantenimento e il rafforzamento di questa maggioranza.
A partire dall’Ucraina: nonostante tutto quello che possono dire a Mosca, le forze per la pace hanno ottenuto ben poco; anche la destra che è cresciuta lo ha fatto a partire da posizioni atlantiste ben chiare, per quanto di dubbia sincerità. Vale per i partiti Ecr (tra cui Fratelli d’Italia), ma anche per quelli di Id, a partire dall’Rn di Le Pen, che ha fatto di tutto (ma non abbastanza) per abbandonare il suo filoputinismo. Altro esempio, i Paesi Bassi, dove il Pvv di Geert Wilders ha ottenuto un risultato importante, pur in brusco calo rispetto alle ultime politiche, solo dopo aver ribadito la continuità nel sostegno all’Ucraina.
Quinto. Una nota sulla Germania: qui è interessante vedere chi ha vinto e chi ha perso (immagine). L’Spd è al suo minimo storico, ma non ne era molto lontana nemmeno alle scorse elezioni e perde relativamente poco. Del resto, con un Kanzler opaco come Scholz e una congiuntura economica debole (nonostante segnali di ripresa ormai abbastanza forti), era difficile che non andasse altrimenti. La Cdu è cresciuta anch’essa di poco, ma è probabilmente al pieno di voti. Il balzo in avanti di AfD e BSW sembra dovuto soprattutto alle emorragie dei Verdi e della Linke: i primi due hanno guadagnato in tutto 11,1 punti, i secondi ne hanno persi 11,4.
Il dato interessante, qui, mi pare soprattutto il risultato del Bsw, il partito di Sahra Wagenknecht, una formazione sedicente di sinistra, anti-immigrazione e contraria all’impegno a favore dell’Ucraina, una roba populista e conservatrice sui valori, ma al tempo stesso schierata per una forte espansione del welfare e della giustizia sociale. In altre parole, il dato (annunciato) di queste elezioni tedesche è la nascita di un bipopulismo radicato a destra e sinistra, come già in Italia (Movimento 5 stelle e Lega salviniana), Spagna (Podemos e Vox) e Francia (Rn e France Insoumise). Questo quadro delinea esattamente la posta in gioco, definita dal rapporto Draghi. D’altra parte, i numeri tedeschi indicano con chiarezza che una ipotetica nuova maggioranza dovrà coinvolgere, oltre ovviamente alla Cdu, i liberali e probabilmente anche la Spd. Dico i socialdemocratici e non i verdi, perché credo che il nuovo corso europeo e tedesco passi per un ritorno al nucleare, che ovviamente possono digerire tutti tranne i Grünen.
Sesto. E qui arriviamo, solo per un accenno in coda, a Italia e Francia. Da noi, pur nella delusione per il doppio fallimento di Stati Uniti d’Europa e Azione, resta la pesante battuta d’arresto del bipopulismo leghista e contiano. In quello che fu il partito del Nord sembra ormai inevitabile un redde rationem che metta da parte il nazionalismo al sugo degli ultimi anni per tornare a concentrarsi sull’amministrazione locale, mentre i pentastellati sembrano allo sbando. Prima di fare politica sul serio ce ne vuole e il quadro nazionale è desolante, ma forse la rincorsa al peggio si sta, finalmente, concludendo.
In Francia, Macron prende atto della sconfitta e gioca la carta repubblicana: che il trenta e passa per cento dei francesi abbia votato Le Pen è un problema, che il resto del paese non voglia essere governato da quella roba là è una speranza su cui provare a costruire qualcosa. Un progetto politico che ha pochissimo tempo per costruirsi, al di là della necessità di arginare la destra estrema, ma che potrebbe partire, di nuovo dalle linee guida indicate da Draghi, per realizzare una coalizione in piena sintonia con quella che, c’è da sperarlo, governerà l’Europa.