È la primavera del 1996, ho ventitré anni, sono stata licenziata dal mio primo programma televisivo – il primo di trecentoventisette licenziamenti della mia vita – e mollata dall’ultimo grande amore senza il quale non posso vivere – il trecentoventisettesimo di millequarantatré grandi amori senza i quali non potrò vivere.
«È un desiderio qui in casa mia tutto bagnato dal dolore, e dopo centomila ore non c’è un minuto di più», ma anche «Amore che ti avevo caricato nel mio sangue: non ti ci vedo, non ti ci sento», ma pure «La rabbia e l’amore s’imparano gratis», ma soprattutto «Scusa se non telefono, ma ho già il mio bel da fare a non morire»; ma tutto questo all’epoca non lo so, perché Fossati non mi ha ancora dato le parole per capire come va tra gli uomini e le donne, e vi vedo e vi piango, voi che vent’anni li avete in questo secolo in cui nessuno vi dà le parole per capire alcunché.
È la primavera del 1996, e per me Ivano Fossati è quello del quale abbiamo squarciagolato “La canzone popolare” la sera delle elezioni, e praticamente nient’altro. Sì, lo so che a quel punto Fossati ha già fatto un tot di capolavori, ma che volete da me, è andata così: alle elementari ascoltavo Dalla, alle medie Guccini, al liceo Conte.
Quando esce “Macramé”, non escludo che il mio acquisto dipenda solo dal fatto che – spero che nessuno faccia mai leggere questo articolo a Fossati – ho letto su qualche rotocalco che lui e Nancy Brilli sono stati fidanzati. La fissazione della giovane me per Nancy Brilli dipende da un film inspiegabilmente dimenticato, “Piccoli equivoci”, e da un servizio fotografico che le aveva fatto Moda, il più bel giornale che questo disastrato paese abbia mai avuto.
La Brilli all’epoca aveva ventiequalcosa anni, io che ero al liceo la scambiavo per un’adulta, diceva delle cose che se avessi avuto quelle parole che sarebbero arrivate nel decennio successivo avrei sintetizzato con «C’è una femmina in Buenos Aires con gli occhi che fan moneta, e con l’anima sta inquieta e più lontana che può»; ma le parole non le avevo, neanche per dire che era bella come erano belle le donne di Manara, il che ci impone la prima divagazione della giornata (oggi sarà particolarmente tosta per gli appassionati dell’andare al punto: foss’in voi rinuncerei subito, ci sarà pure qualcos’altro da leggere).
Feltrinelli ha appena ripubblicato “Il gioco”, fumetto di Milo Manara che all’epoca era il porno delle femmine, e con «all’epoca» intendo: quando il porno non stava nei telefoni. Quando c’erano persino i cinema porno (a Bologna, in quella che era la più nota sala cinematografica in cui il pubblico andava a farsi le seghe, ora c’è la più nota libreria per ceto medio riflessivo, con le birre artigianali e tutte cose, e questo è il mio saggio in due righe sull’evoluzione dell’occidente in questo secolo).
Manara forniva una scusa fondamentale per femmine alle quali era stato insegnato il pudore: disegnava roba bella. Claudia, la signora borghese che passava l’intero fumetto nuda a masturbarsi in pubblico, ma mica per colpa sua, perché le avevano inserito un chip nel cervello, Claudia era bella in un modo che nella prefazione alla nuova edizione spiega meglio di me Alessandro Baricco: «Il cui corpo, constato, è talmente di classica bellezza che non appare minimamente invecchiato, nonostante gli anni, destando in me un’ammirazione incondizionata per chi si è immaginato di disegnarla in quel modo, fissando un canone, o un gusto, che non sarebbero cambiati mai più».
Era, il bello, una copertura per i nostri sussulti ormonali? Certo, d’altra parte i giornali scrivevano che “Macramé”, il disco più pieno di sesso che mi sia mai capitato di ascoltare, era un disco sulla guerra in Bosnia (allora si scriveva: nell’ex Jugoslavia). Le coperture culturali mica sono una brutta cosa, se le sai fare. Per dire: tra una canzone e l’altra di “Macramé” una voce femminile leggeva “Lettere di una monaca portoghese”, un testo del Seicento di cui la me vegliarda non saprebbe niente se non fosse per Fossati, e che la me ventitreenne andò a ordinare in libreria dopo averle viste citate nel libretto del cd, come oggi farebbe se qualche squinzia le leggesse piangendo su TikTok. Vuoi mettere quant’era meglio la filiera nostra.
Vuoi mettere cos’era metter su per la prima volta “Macramé” e sentirlo cominciare con quel verso pazzeschissimo: «È proprio da finale di carriera accompagnarsi a gente di cultura». Avere ventitré anni e non avere idea di cosa sia la gente di cultura (cioè: avercela, ma sbagliata) né di cosa sia un finale di carriera (anche lì: sbagliata), ignare della fortuna d’avere ventitré anni nel Novecento. Quando esisteva il lusso d’incuriosirsi per le cose che non si capivano, invece di cercare roba alla nostra bassezza.
Insomma ho ventitré anni e compro questo cd e ne faccio quel che alle medie avevo fatto di “Blue” di Joni Mitchell: lo consumo. Quando dicono che su Spotify hanno più streaming i giovani trapper analfabeti perché i ragazzini ossessivi ascoltano musica tutto il giorno, e sempre le stesse canzoni, mi chiedo che gioventù abbiano avuto gli adulti che fanno queste brillanti osservazioni sociologiche: eravamo molto più ossessivi noi, col nostro limitato numero di dischi. Prima dei cd e del benedettissimo tasto “ripeti”, eravamo capaci di risollevare a mano la puntina per riascoltare la stessa canzone decine di volte in un pomeriggio.
A proposito di cliché infondati, mi urge un’altra divagazione. Nel 2012 passai alcuni giorni a litigare con la Rizzoli, casa editrice d’un mio libro che stava per uscire, perché volevano cambiare a “Macramé”, nel libro abbondantemente citato, l’accento da acuto a grave. Dittatura di Google, certo, ma Google l’accento sbagliato lo prende da come l’hanno trascritto discografici analfabeti. Certo che non sappiamo niente nientissimo in questo secolo, ma pure in quello scorso era pieno di scarsi: li notavamo meno perché c’erano anche quelli bravi. Nel ritaglio d’epoca, Repubblica va a intervistare Fossati sul suo nuovo disco, e cita la canzone delle elezioni, chiamandola “La musica popolare”, e insomma non è che fosse un secolo scevro di cialtronate. «È una strada lastricata, amore, dove passa l’innocenza», appunto.
Non ho mai saputo – per fortuna – come fosse andata tra Fossati e la Brilli, così come non ho mai saputo come fosse andata davvero tra Miller e la Monroe, o tra Burton e la Taylor: era un secolo in cui ci venivano forniti meno mezzi per sfogare l’esibizionismo, la gente famosa lo era perché sapeva fare delle cose che non fossero accendere il telefono ed esporre la propria vita («mi dicono che dio esiste, ma si accontenta di camere doppie con la vita siderale, mentre qui da noi piove sempre»: in “Macramé” c’è tutto, pure i finti ricchi di Instagram).
Non ho mai saputo chi dei due avesse detto «L’amore dura quel che deve durare», che è una frase d’una crudeltà così elegante che mi dispiace non aver mai avuto la prontezza di usarla: “Macramé” mi ha insegnato un sacco di cose, e io come al solito non ne ho imparata neanche una.
Ricordo però un rotocalco secondo il quale si capiva che era un disco sul loro disamore perché a un certo punto, in una canzone intitolata “L’orologio americano”, c’era il verso «Verità vuole che lei, labbra grosse, restasse impigliata alla mia bocca più di quanto volesse», e chi mai poteva essere se non Nancy Brilli, l’unica nell’universo con labbra così manaresche.
Oggi i giornalisti studierebbero i like e gli unfollow, scriverebbero che si sono lasciati e si è capito dal fatto che lei ha fatto una storia Instagram al mare in cui non ha più l’anello che le aveva dato lui, e lui ha smesso di seguire le amiche di lei, e non so se da questo tipo di racconto possano nascere grandi dischi, non so come sia andata con l’uovo, la gallina, e il declino di quel pollaio che ormai sono le élite.
E quindi, dove voglio arrivare con queste righe? Che domande, dove vuole arrivare qualunque riflessione culturale in questo tempo sbandato: a TikTok. Su TikTok è pieno di signorine inconsapevoli che la loro estetica è modellata su Manara, signorine che rimirandosi compiaciute nella telecamera del telefono canticchiano «señorita, stai ballando sola», che è un verso della canzone di Fedez sulla fine del suo matrimonio, della “L’orologio americano” che questo secolo si può permettere.
Puoi comporre capolavori se il tuo scopo precipuo è trovare il verso che creerà un marketing dell’ego su TikTok? Funzionerebbe su TikTok quel verso fossatiano che dice «io ti ho guardato abbatterti e salire»? Funzionerebbe come inno alla rivendicazione di vita nuova e recriminazioni vecchie quella strofa del ’96 in cui l’io narrante dell’amore finito diceva «Lupo mi sono fatto, invece, così ebbi salvo il pasto, tradito il mio destino che niente era garantito, se non che il tempo e chi lo serve ha bocca più grande e feroce della mia, povera bestia cattiva, non abbastanza cattiva»? Secondo me sì: forse la maledizione è nascere per TikTok, mica finirci come mercato di seconda mano.
A un certo punto, l’anno dopo “Macramé”, le “Lettere di una monaca portoghese” uscirono in un’edizione illustrata, appunto, da Milo Manara. Sui social che censurano i capezzoli non si potrebbero far vedere, ma io sogno che, coperte le sconce illustrazioni, il testo diventi quel che questo secolo invoca: le parole motivazionali di cui la derelitta generazione ora trentenne è in perpetua cerca.
Non sarebbe bello se una squinzia che non sa nulla ma ci tiene a sembrare assertiva al suo ex scoprisse quel testo e declamasse perentoria alla telecamera «Ho dimenticato ogni piacere e dolore, e mi ricordo infine di voi quando voglio ricordarmene»? Chiara, pensaci: io un tentativo di recuperare centralità culturale lo farei.