L’interpretazione dei risultati elettorali si presta a un ricorrente (in Italia: inevitabile) equivoco epistemologico. I colti e gli incliti dell’accademia e della stampa, non meno che i cittadini comuni, tendono naturalmente a interpretare gli scrutini di voto come la divinazione di un responso o, ancora meno laicamente, a scorgervi la rivelazione del senso reale-razionale della storia e dell’ordine provvidenziale degli eventi. Non è che il comportamento elettorale delle masse non sia significativo di qualcosa di grande; il fatto è che difficilmente questo significato coincide con il senso che alla Storia (con la maiuscola) pensano di imprimere gli elettori con il loro voto o la loro “decima”.
In un’Italia instupidita dalla propaganda anti Ue e no euro, anche la Brexit, qualche anno fa, fu considerata epifania del Take back control come nuova istanza della politica globale, e c’è voluto del tempo per capire che il risultato del referendum britannico era stato semplicemente l’eterogenesi dei fini di un processo politico molto meno spontaneo e originale, un effetto del cortocircuito tra chi giocava a fare il pazzo (Nigel Farage) e chi giocava a fare il furbo (David Cameron) con una opinione pubblica anfetaminizzata dall’odio e dalle panzane, non il parto del genio e della sapienza popolare d’oltre Manica davanti ai presunti affronti di Bruxelles.
Allo stesso modo, oggi pare scontato per i devoti dei bignamini storicisti interpretare il voto italiano alle elezioni europee come l’inveramento di un destino fatale – «c’avete questo bipolarismo … e tenetevelo» – o come una manifestazione emblematica della non riformabilità dei processi (ir)razionali del nostro sistema democratico: dunque come un’imputazione o una condanna per chiunque si ostini velleitariamente a metter in discussione il vero spirito della nazione.
Questa idea della democrazia come universalizzazione politica del principio vox populi vox dei andrebbe considerata in sé un indice significativo di sottosviluppo politico-culturale. Come la fiducia nei tarocchi o il timore del malocchio. Ma non sta bene – sembra, se no, che si critichino le scelte degli elettori, che hanno sempre ragione – contestare l’assunto per cui la democrazia non è più un sistema di legittimazione (e limitazione) dell’esercizio del potere, come insegna la vecchia teoria del costituzionalismo-liberale, ma un’ordalia plebiscitaria, che eleva i sopravvissuti alla prova del fuoco a testimoni o incarnazioni di una verità politica rivelata.
Chiunque vinca un’elezione e comunque la vinca in Italia ha diritto di considerarsi e di essere riconosciuto come il Napoleone di Hegel: lo spirito del mondo seduto su un cavallo. Lo si fece pure con Beppe Grillo e Luigi Di Maio che volevano aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno, o con il Salvini triumphans in mutande al Papeete. Figurarsi con due donne meno sceme e smisurate nella loro baldanza.
Perché contestare a Elly Schlein – «Ha vinto, no, Schlein? E allora…!» – di avere fatto del Partito democratico un partito di grado zero, che rinuncia a essere qualcosa ma, essendo tutto e il contrario di tutto, riesce a sommare tutti i voti senza perderne nessuno, anche se al costo di non essere più nulla?
Perché criticare il Pd che ha su ogni tema una posizione diversa a seconda di chi e a chi parla, se il pluralismo vincente è quello modulare, congegnato da Gianroberto Casaleggio, che non allarga il campo dei consensi costruendo comuni piani di azione tra soggetti e interessi diversi, ma affastella le più incompatibili diversità in nome della rivolta di tutti contro tutti, nell’indifferenza o perfino nel fiancheggiamento del nemico altrui?
Perché poi contestare a Giorgia Meloni di avere fatto del Governo una trincea di opposizione alla realtà delle cose e alla verità dei fatti, e di guidare un esecutivo che non è in grado di fare nulla, se non di calciare in avanti la palla (sul bilancio e non solo), ma è pronto a lanciare anatemi su tutto e a gabellare anche i fallimenti come prova delle proprie buone ragioni, come ha fatto sull’immigrazione, che doveva essere fermata, però, continuando a dilagare, viene almeno maledetta, come second best politico più economico e sicuro?
«Dovevamo fermarli, ma non ci riusciamo. Ma se ne deportiamo qualche migliaio in Albania, siete contenti? Sì!!!». D’altra parte il popolo che chiede meno immigrati ormai si accontenta di poco: del riconoscimento della legittimità della propria idiosincrasia per l’immigrazione e del desiderio frustrato di liberarsene.
Ma – questa è la morale della favola – Meloni e Schlein hanno vinto e quindi hanno ragione. L’output della politica non è più il governo, ma le elezioni, che dovrebbero rappresentarne in teoria l’input istituzionale. Non contano le conseguenze pratiche delle cose che si fanno, ma gli effetti psicagogici di quelle che si dicono. Si può tranquillamente plebiscitare a Parlamento unificato quel flagello etico-politico-finanziario del Superbonus e uscirne tutti indenni, senza pagare nulla e lucrando pure sulle conseguenze del disastro. Questa condizione entropica è oggi la fisiologia della democrazia in Italia e questa alienazione psico-politica è considerata, di fatto, uno stato di normalità. Anziché suonare le sirene di allarme, suonano le grancasse della gloria.
I fenomeni politici vincenti hanno spesso, nel nostro Paese, questa caratteristica: le ragioni del loro successo coincidono con quelle della rovina degli italiani. L’Italia che finisce la seconda guerra mondiale schiantata dalla sconfitta e dalla colpa e l’Italia tronfia, incantata sotto al balcone del Capoccione nell’ora delle decisioni irrevocabili sono due facce della stessa medaglia. E l’Italia di oggi (e non solo di oggi) è per molti aspetti un prodotto dello stesso conio, intellettuali compresi, nel loro hegelismo d’ordinanza e nel servo encomio della grandezza di qualunque vincitore.