Il confronto tra il dibattito televisivo Biden-Trump di ieri notte ad Atlanta e quello francese di un paio di giorni fa fotografa il gran problema della democrazia americana. La somma degli anni dell’attuale presidente del consiglio francese Gabriel Attal (trentacinque) e del lepenista Jordan Bardella (ventinove) è di quattordici anni inferiore all’età del candidato americano più giovane, Donald Trump (settantotto). Mentre il candidato socialista Olivier Faure (cinquantacinque) ha quasi trent’anni in meno di Joe Biden (ottantadue).
Non parleremmo di politica e vecchiaia, di per sé un argomento fesso quanto l’omologo inno alla giovinezza primavera di bellezza, se ieri notte non avessimo assistito alle grandi difficoltà di Joe Biden di articolare risposte coerenti ed efficaci di fronte alle enormi bugie e alle minacce alla democrazia americana sparacchiate dal più tossico dei politici di questa epoca.
Trump, che è solo quattro anni più giovane di Biden, può permettersi di non essere coerente e di dire cose strampalate ed esagerate, perché questo è il suo marchio di fabbrica, quello che gli interessava ieri notte era mostrarsi energico e in pieno controllo di sé, al contrario di Biden che si è spesso perso nei suoi elenchi di successi ottenuti alla Casa Bianca risultando inefficace se non dannoso.
Contro un avversario che mente a raffica, che ha già tentato un colpo di Stato dopo aver perso le scorse elezioni, che non riconoscerà una seconda sconfitta e che minaccia ritorsioni contro i suoi avversari politici non è facile dibattere, a prescindere dall’età.
Uno come Trump non dovrebbe stare su quel palco, un golpista non dovrebbe avere diritti politici, figuriamoci ritentare di trasformare la democrazia in dittatura.
Aver pensato che la sconfitta del 2020 avrebbe fatto dimenticare Trump è il principale errore della presidenza Biden, ma a quattro mesi dal voto del 5 novembre serve qualcuno in grado di dire la verità in modo serio: Trump è un passo verso la fine della democrazia in America e del mondo in cui viviamo. Biden non è più in grado di farlo.
Ieri notte i leader e gli strateghi democratici, compresi gli sfortunati ex dirigenti delle amministrazioni Obama e Biden che si trovavano nei salotti televisivi a commentare il dibattito, sono entrati in modalità panico. Sanno che va trovata una soluzione. Probabilmente spetterà al trio di big democratici al Congresso (Charles Schumer, Nancy Pelosi e James Clyburn) convincere il presidente, e magari anche sua moglie Jill, a fare un passo indietro e lasciar decidere la convention di Chicago (19-22 agosto) il candidato presidenziale.
Il problema è che nessuno ha idea di quanto siano capaci i possibili sostituti, il governatore della California Gary Newsom, la cui prima moglie adesso è la compagna di uno dei figli di Trump, la governatrice del Michigan Gretchen Whitmer, il governatore della Pennsylvania Josh Shapiro, e altri. La lista dei candidabili è lunga, a cominciare dalla vice presidente Kamala Harris, ma nessuno di loro ha mai dato piena prova personale di essere all’altezza del compito.
Oggi Trump sembra di essere un vantaggio di un soffio contro l’anziano Biden. Quindi è teoricamente possibile che l’ingresso in campo di qualcuno giovane, nuovo e dinamico possa cambiare la traiettoria elettorale. Forse potrebbe addirittura essere un’opportunità per i Democratici, e una fonte di rinnovato coinvolgimento popolare e di straordinario entusiasmo a favore di “mister o lady chiunque” in grado di salvare la democrazia americana.