Era già una mattina difficile, giacché ero in quel luogo infernale che è la stazione dell’alta velocità di Bologna. E ci ero arrivata dopo aver letto l’ennesima intervista in cui l’ennesimo qualcuno diceva per l’ennesima volta che valuta le persone da come trattano i camerieri al ristorante, che è ormai la dichiarazione ufficiale per dire che sei uno dei buoni: se il cameriere tiene il pollice nella tua minestra, tu mica sei un orrido schiavista che glielo fa notare.
Finita di leggere l’intervista e scesa dal taxi, ero passata dal bar alla stazione normale, quella con fuori il cielo. Avevo pagato un cappuccino medio da asporto, l’avevo chiesto invano a quattro baristi impegnati a farsi gli affari loro in un bar deserto, mi ero sentita fare il predicozzo perché avevo un tono sbrigativo e non gentile, e qualunque celebrità che spiegasse agli intervistatori l’importanza dell’essere cerimoniosi con la servitù avrebbe dato ragione a loro, mica a me.
A me che osavo non avere tutta la mattina davanti in una stazione, un posto dove la gente di norma va a perder tempo, a me che mi vedevo consegnare un cappuccino piccolo e uscivo dal bar Vyta pensando che come schema Ponzi non è mica male: venite da noi, pagate una taglia media, accontentatevi d’una piccola sennò perdete il treno, uscite di malumore e consapevoli d’aver regalato dei soldi a un bar che spero almeno sia abbastanza di sinistra da dividere con i baristi sfaccendati i proventi della truffa.
Ma sto divagando, non è oggi il giorno in cui parleremo del fatto che nessuno sa più fare nessun lavoro, ed è una cosa che si nota soprattutto nei bar, se non sei così sfigato da essere spesso paziente e quindi da notarlo sui lettini della sala operatoria. Non è neanche il giorno in cui analizzeremo la sovrapposizione tra le frasi da dire per sembrare sincero democratico ai giornali e le raccomandazioni di Gerald O’Hara sull’essere gentili con gli schiavi nelle piantagioni. Oggi è il giorno in cui parleremo di ciò che viene prima del lavoro, ovvero dell’istruzione (parlandone da viva).
Era dunque una mattina difficile, eravamo io e il mio cappuccino piccolo pagato come medio nei sotterranei dell’inferno dei trasporti, se Dante fosse vivo ci ambienterebbe una cantica, e ovviamente il treno era in ritardo, ma i ritardi dei treni dell’alta velocità a Bologna vengono comunicati sempre quando ormai sei sotto, dove non c’è da sedersi e dove se torni su a fare una piazzata per lo schema Ponzi del cappuccino perdi il treno, e quindi non ti resta che rimanere in quel limbo senza stagioni, in quel posto senza cielo, ad aspettare e sperare.
È in quel momento che arriva un messaggio da un’amica. L’amica crudele. Quella che sa come rovinarmi la giornata. A sua discolpa: non sapeva della truffa della misura del cappuccino, non era al corrente di quanto fosse precario quella mattina il mio equilibrio psichico, non aveva contezza del rischio Anna Karenina nel girarmi quel comunicato stampa.
Il comunicato stampa viene da un grande editore e non annuncia un esordio, un carneade, un titolo minore che la casa editrice lavori con la mano sinistra perché le uscite importanti sono altre. Il comunicato dice che esce in contemporanea mondiale un libro molto atteso, di autrice molto venduta, e con delle particolarità – che non specifico per non trasformare questa cronachetta in una caccia al disgraziato del giorno – che rendono particolarmente appetibile la notizia dell’uscita.
Un mio amico che di mestiere fa la persona famosa dice che i comunicati vanno scritti esattamente con ciò che vuoi venga pubblicato, giacché i giornali poi li ricopieranno, mica si sforzeranno di renderli più interessanti o meno sgrammaticati. È anche questa consapevolezza che mi fa venire voglia di kareninare quando, alla seconda riga del comunicato, leggo che quello che in tutto il mondo correranno a comprare è un libro «commuovente».
Io voglio parlare con te, tizio dell’ufficio stampa del grande editore. Io voglio parlare con te che, ci scommetto, sei della generazione convinta d’avere due lauree perché un sistema universitario sempre più per ciucci presuntuosi ti ha messo a disposizione delle mezze lauree che ti spaccia per intere, e tu così puoi dire io ho la triennale e la magistrale, e mica vorrai pensare sappia meno cose della mia bisnonna con la quinta elementare, mica vorrai dubitare sappia costruire il participio presente di «commuovere». Ma voglio parlare anche con chi il comunicato importante l’avrà riletto e autorizzato, e quel «commuovente» gli è parso italiano.
La mia amica, che è vegliarda quanto me, dice che nessuno sa più niente e le ultime elementari le abbiamo fatte noi, ma sappiamo entrambe che è una pietosa bugia che raccontiamo a noi stesse. Che le nostre ex compagne di scuola scrivono «pò». Che se io a un certo punto della mia vita quasi adulta non avessi incontrato Sergio Perroni non avrei mai imparato l’italiano. Che noialtre non riempiremo i social delle lagne sulle nostre due lauree con le quali l’industria culturale comunque ci sottopaga, ma ciò non ci rende abbastanza diverse da loro: potremmo benissimo dire «commuovente».
La prima cui lo vidi scrivere, il primo trauma che non si scorda mai, è una mia coetanea ricca e famosa, e di questa cosa che i ricchi non noleggino un precettore il cui compito sia evitare loro di comporre didascalie di Instagram gravemente sgrammaticate io non mi capaciterò mai.
Venerdì Catherine Middleton ha scritto sui social che avrebbe partecipato a una parata il sabato, e che certi giorni stava meglio e certi peggio, e che tutti i sudditi che l’avevano contattata per solidarizzare e incoraggiarla erano stati preziosi per lei e William, «It really has made the world of difference to William and me».
Poiché viviamo in un’epoca che ha poca dimestichezza con la prescrittività, nessuno ha rimandato a scuola chi aveva commentato cianciando che la dicitura giusta fosse «William and I». Anzi, YouGov ha fatto un sondaggio, probabilmente per fomentare chi prossimamente ci dirà che la lingua cambia e che se la maggior parte degli inglesi non sa parlare un inglese corretto è giusto che lo scorretto divenga corretto e altre orwellianità.
Su un campione di seimilanovantasette maggiorenni, la maggioranza ha ritenuto che «per William e per me» dovesse invece essere «per William e per io». Certo, la scomposizione del dato dice che quei tamarri di Birmingham sono più sgrammaticati – a ritenere giusto «per io» è il sessanta per cento degli intervistati – ma pure a Londra non siamo messi benissimo: non sa costruire una frase coi pronomi corretti il quarantasette per cento del campione. (Non la sa costruire ma, essendo gente di questo secolo, riterrà di poter spiegare come si costruisca, giacché molto prima della grammatica è andata a puttane l’opzione di tacere quando si parla di temi che non conosci: “Sogni d’oro” ha quarantatré anni, e la scena in cui Nanni Moretti non parla di astrofisica dovrebbe stare in costituzione, altro che diritto all’aborto).
La mia amica crudele vorrebbe consolarsi dicendo che è un problema di chi è più giovane di noi, ma il sondaggio più atroce che abbia mai visto ci svela la verità che non vogliamo vedere: il campione tra i cinquanta e i sessantaquattro anni sceglie la formulazione sbagliata al cinquantanove per cento, quello tra i diciotto e i ventiquattro anni solo al cinquantaquattro (speriamo abbiano tutti già mandato curriculum alle case editrici). Quel che è peggio, i giovani rispondono «non so» al dieci per cento (un dieci per cento cui vorrei intestare tutti i miei possedimenti), mentre le capre vegliarde di più di sessantacinque anni riconoscono di non sapere niente di niente solo nel tre per cento dei casi.
Ora, io lo so perché la maggior parte degli inglesi sbaglia a valutare l’uso dei pronomi in quella frase. Lo so perché l’inglese ha così poca grammatica che ricordo una per una le cose che sono state insegnate a scuola a noi e a loro, una delle quali era che in caso di doppio soggetto si dice «and I», non «and me». Veniamo a cena, William and I. Divorziamo, William and I. Ma quello che usa la Middleton è un complemento di termine, non un soggetto.
Nelle risposte sotto al sondaggio, su Twitter, qualche anima generosa spiega: provate a togliere William, vedete che direste «for me» e non «for I». Riceve risposte quali «ci hanno letteralmente insegnato a scuola che si usa I» (ettepareva non arrivasse il «letteralmente», segno definitivo del declino dell’occidente).
In quinta elementare mi cambiarono scuola. In quella nella quale mi spostarono, i bambini facevano inglese dalla terza. Nelle ore d’inglese venivo mandata in quarta, giacché si pensava che non potessi star dietro a lezioni di una lingua che gli altri studiavano da tre anni e io da mai.
L’unica cosa che ricordo, di quelle ore d’inglese in trasferta, è una cosa che capii col senno di poi. Ritenendo che il concetto dell’ausiliare «do» fosse troppo complesso per dei bambini, l’insegnante ci spiegava che le interrogative in inglese si costruivano invertendo verbo e soggetto, e le negazioni col «not». Cioè: ci insegnava la costruzione che in inglese vale per «avere» e «essere», ma fingeva valesse per tutti i verbi. Poiché la costruzione giusta era complessa, qualcuno aveva deciso d’insegnarcene una sbagliata che poi avremmo dovuto disimparare.
Per fortuna su Tutto Musica e Spettacolo c’erano i testi delle canzoni, e l’inglese lo imparavo da lì, perché non oso pensare la fatica che sennò avrei fatto in adolescenza a decostruire l’inglese da buon selvaggio che insegnavano alle costose elementari private da cui uscivano bambini che dicevano «I eat not, eat you?».
Probabilmente alle elementari degli inglesi è andata allo stesso modo: bambini, si dice «William and I» – poi ci sarebbero i casi, per cui se è dativo diventa «William and me», ma per fortuna l’inglese mica è menoso come il tedesco che ha i casi, mandate a memoria «William and I» e va bene così.
Ora la domanda è: gli insegnanti erano delle capre, o erano solo troppo ottimisti? Abbastanza ottimisti da pensare che poi uno la propria lingua la impara meglio di quanto accada all’età alla quale non sai allacciarti le scarpe, si fa delle domande sulle differenze d’uso, sviluppa uno straccio d’orecchio, diventa un adulto che sa fare il cappuccino della misura richiesta ed è persino, prima o poi, inciampato nella parola «commovente», non esattamente un aggettivo riservato alle nicchie gaddiane?