«Odio stare da sola, perché quando sono da sola sento di avere dieci anni». Lo scrive Susan Sontag quando ha trent’anni, ho ritrovato la frase nel libro più bello che abbia letto di recente – “Sontag – Una vita”, l’ha scritto Benjamin Moser, l’ha pubblicato Rizzoli – e ho avuto due diverse reazioni.
Una è la stizza di chi scopre che c’è un errore nel concetto che sta passando i mesi a elaborare, ovvero che i trent’anni siano i nuovi dodici: non c’è, come spesso accade, niente di nuovo in un fenomeno che Sontag aveva notato già sessant’anni fa e io mi ero illusa di aver osservato per prima.
L’altra reazione è il sollievo che è impossibile non provare quando leggi quelle più brave prevedere il futuro. La citazione di Sontag prosegue parlando della «“vera me”, quella senza vita. Quella da cui fuggo, in parte, stando con altre persone. La lumacona. Quella che dorme e, quando è sveglia, ha sempre fame. Quella a cui non piace fare il bagno o nuotare e non sa ballare. Quella che va al cinema. Quella che si mangia le unghie».
Mancavano cinquant’anni ai telefoni con obiettivo fotografico incorporato, e Sontag aveva già capito che l’avere un pubblico, d’una persona o di milioni, era l’unico modo di darsi una disciplina, l’unico modo di esistere, di esistere con le buone maniere di adulti, per gente che altrimenti resterebbe perpetuamente preadolescente.
Però. Però forse l’infantilizzazione degli adulti di oggi non è quella compiaciuta e letteraria di Susan Sontag, nata nel 1933. Ricordo la frase ma non ricordo chi l’abbia detta, eppure l’ho letta di recente (era Barbero? era Ricolfi? era Crepet? Leggere troppe cose e non ricordarne nessuna è una malattia di questo secolo o anche in questo caso non ci siamo inventati niente?). Diceva, a memoria: il problema è che dai vostri avi ci si aspettava che diventassero adulti a sedici anni, e da voi ci si aspetta che non cresciate fino ai quaranta.
Era qualche mese fa, e due infermiere di mezz’età non riuscivano a trovarmi una vena, perché io ho vene inesistenti e ogni prelievo diventa una sceneggiata di tentativi e ipotesi e collaborazioni. Le infermiere sono l’ultima categoria che conservi un certo qual senso delle classi sociali: per quanti medici impediti si trovino a osservare, per loro il dottore resta comunque il dottore.
Quindi una delle infermiere fa cenno a un dottorino che c’è lì vicino di venire ad aiutarle, e io mi irrigidisco come m’accade davanti ai neolaureati di cui già vedo tutta la tragica inesperienza e il tempo che mi faranno perdere e le vene che mi romperanno (a lavorare s’impara lavorando: uno che ha passato gli ultimi trent’anni a studiare è ovvio che non saprà fare niente, neppure un prelievo su vene grosse e facili, figuriamoci uno a me).
Dico: ma figuriamoci se un dodicenne mi trova la vena, su. Il medico s’impettisce: non ho dodici anni, ne ho il triplo. Io rispondo: appunto, ne ha trenta, che sono i nuovi dodici. Il medico si offende e si strappa i guanti e se ne va, forse convinto che mi fregherà qualcosa della sua suscettibilità preadolescenziale. L’infermiera âgée mi trova la vena, tutto è bene quel che preleva bene. Ma mica è sempre stato così, mi sa.
Nell’ospedale di provincia in cui mio padre faceva la gavetta, cinquant’anni fa, lo trattavano come un dottorino che avendo trent’anni non sapeva trovarsi il culo con le mani, o come il signor dottore? E, se lo trattavano come un adulto, era perché cinquant’anni fa una laurea era ancora significativa, o perché portava il loden e non le felpe col cappuccio e le magliette con le scritte?
L’altro giorno un amico m’ha detto: ti rendi conto, sì, che abbiamo cinquant’anni e parliamo come se ne avessimo ottanta? È da quella conversazione che mi chiedo se i fenomeni siano convergenti: i trenta sono i nuovi dodici ma i cinquanta sono i nuovi ottanta?
La me dodicenne mollava la cartella subito oltre la porta d’ingresso di casa, ritenendo poco interessante e molto faticoso portarla fino alla cameretta. Lo facevo perché me lo lasciavano fare, lo facevo perché c’era qualcuno che avrebbe messo in ordine per mio conto, lo facevo perché ero pigra e il minimo della fatica era sempre la mia opzione preferenziale. Per tutti i motivi per cui per i successivi quarant’anni sono rimasta tale e quale: fermamente intenzionata a non caricare la lavatrice; finché anche un solo paio di mutande pulite fosse stato disponibile, non c’era bisogno d’affaticarsi a lavare quelle sporche.
Oggi l’Instagram è pieno di trentenni che ci spiegano che la ragione per cui non disfano la spesa nell’ingresso o non caricano la lavatrice o non spolverano gli omaggi degli sponsor o guardano le serie su Netflix invece di pulire il bagno non è che guardare puttanate è più piacevole che scrostare il calcare, ma che hanno il disturbo dell’attenzione. La differenza tra crescere ai tempi miei e crescere ai loro è sì che oggi puoi ordinare a domicilio mutande pulite on line e te le portano a casa, è sì che oggi devi sforzarti di rassettare almeno un angolo di casa per fare da sfondo agli autoscatti; ma soprattutto è che oggi persino essere pigre e disorganizzate non è un lusso voluttuoso, bensì un lagnoso bisogno di psicofarmaci.
Ieri Paolo Virzì ha compiuto sessant’anni. Tempo fa un altro ragazzo del ’64 mi ha chiesto come fosse “Un altro Ferragosto”, io ho detto qualcosa nell’ordine di «Più pieno di morte dell’ultimo disco di Bowie», e lui ha borbottato che è proprio inevitabile, compi sessant’anni e non riesci a pensare ad altro che alla morte (io penso alla morte in continuazione da quando ne avevo quaranta: dice che è perché voglio sempre fare l’enfant prodige).
I trenta sono i nuovi dodici, i cinquanta i nuovi ottanta, i sessanta le nuove pianificazioni di funerali. Il che rende chiaro che tra i cinquanta e i sessanta spendi tutti i tuoi risparmi in check-up completi che segnalino qualunque macchiolina e t’illudano che morirai tardissimo e in perfetta salute; ma non spiega come si spendano i soldi a trenta: in giocattoli da dodicenni, o in stilisti come facevamo noialtre?
Poi, certo, ci sarebbe non solo da analizzare come cambia la vita, ma come cambia la morte, con la telecamera nel telefono. E anche qui c’è una Sontag perfetta, quando le diagnosticano il cancro.
«Forse è meglio che approfitti di questo tempo per concentrarsi sui suoi valori spirituali», «Io non ho valori spirituali», «Forse è meglio che approfitti di questo tempo per stare con gli amici», «Io non ho amici».
E questo, sia chiaro, non era un editoriale su quelli che – non avendo evidentemente sentito mai parlare un trentenne d’oggi, uno che amici non ne ha ma ha la telecamera nel telefono – quelli che beati loro pensano che i trentenni medi scrivano le tesi di Wittenberg, e quindi chissà che dialettica televisiva si aspettavano dalla trentaseienne Chiara Ferragni.