Miliardari analfabeti e noiL’epoca delle case da ricchi con lessico da poveri

L’invito a migliorare la propria istruzione è vissuto come una offesa. Si adonta chi ha soldi e ha smesso di circondarsi di intellettuali, e anche chi è squattrinato e pensa si tratti dell’ennesima discriminazione

ISSOUF SANOGO / AFP

Il più brillante intellettuale che abbia mai conosciuto faceva, tra gli anni ’70 e gli anni ’80, già la vita di Instagram: quella in cui soggiorni permanentemente in un lusso che non puoi permetterti.

Credo sia merito suo se la me piccina si convinse che la cultura fosse una valuta: se avevi letto abbastanza filosofi, e li sapevi inserire nei discorsi facendo abbastanza divertire l’interlocutore, ci sarebbe sempre stato sempre qualche ricco pronto a invitarti a Cortina, a Porto Cervo, alle Bahamas.

Una cosa che non sapevo allora, e che ci avrei messo decenni a notare, era che l’intellettuale brillante la cui moneta di scambio è intrattenere l’uditorio non si sarebbe estinto (anzi); in compenso sarebbero scomparsi i ricchi che pagavano per circondarsi di gente più colta di loro, e nel corso del processo diventare anche loro un po’ meno incolti.

Quand’è cominciata questa deriva del miliardario svergognatamente analfabeta? Quand’è che ho cominciato a dire ai ricchi che conosco, la prima volta che rendono chiaro di soffrire d’una certa qual povertà lessicale, «Ma perché non ti prendi un precettore?», e a venire guardata come mucca guarda treno?

Quand’è che i ricchi, persino quelli che ci tengono a darsi un tono e mai farebbero l’elogio del mojito spensierato, hanno però preso a frequentare calciatori, piloti, rapper persino più analfabeti di loro, e quando si parla di qualcuno che non vuol fare qualcosa ti dicono «è recidivo», e tu devi capire che intendono «refrattario» perché parlano l’italiano a orecchio di chi non ha avuto soldi per studiare?

(Che domande, diranno i miei cinefili lettori: almeno dal 1974, quando Ettore Scola faceva dire, alla figlia del palazzinaro di “C’eravamo tanto amati”, «idrocarburi» intendendo «carboidrati». Però nel 1974 era satira, no? O era forse già iperrealismo, ma non lo sapevamo perché i miliardari sgrammaticati non stavano sui social e li vedevamo da lontano?).

I social sono un’aggravante, naturalmente. Il loro ostinarsi a dirci troppo di tutti, ma soprattutto l’immediatezza. Non avremmo mai visto una stilista dire ai figli che quel monumento famoso di cui guardano la riproduzione è «la rocca di Caserta», se non ci fosse l’urgenza di pubblicare la propria vita in diretta (forse un regista feroce come quello del documentario su Valentino una cosa così l’avrebbe inserita, ma nel contesto d’un montaggio e non d’un vomitare la vita avrebbe avuto tutt’altro senso; e poi Valentino è della generazione che si circondava di gente colta: credo proprio che conosca la reggia di Caserta).

Non avremmo mai dovuto chiederci come diavolo cresceranno ’sti poveri figli, in case da ricchi con lessico da poveri, in scuole americane mentre a casa nessuno parla inglese, con l’italiano traballante di genitori che una volta arricchitisi non hanno pensato fosse il caso di mettersi a studiare, ignorando cose con una tenacia inspiegabile nell’era di Google.

(La stessa stilista tempo fa ha passato un paio di video su Instagram a chiedere agli ospiti, al marito, alla balia dei figli cosa significasse la scritta “Berlin Mitte” su un oggetto, e nessuno dei presenti aveva mai sentito parlare di quell’oscura mèta turistica, nessuno aveva approfittato di nessun’offerta per visitare le metropoli europee a 49 euro tutto compreso, e d’altra parte perché avrebbero dovuto: cosa sei ricco a fare, se devi romperti le palle a conoscere le città d’arte, invece di andare a Sharm a fare il bagno).

L’immediatezza è il guasto originale, la tara che rovinerebbe anche chi non fosse già fallato. È quella per cui un ministro scrive «infrazione» invece di «effrazione», un sottosegretario «Libia» invece di «Libano», un finalista dello Strega declina Simone Weil al maschile.

Il commentatore mediamente scemo dei social, se dici questa cosa, pavlovianamente risponde «è diverso: lo scrittore mica è pagato coi miei soldi». Ma che tu sia ministro, scrittore, commentatore scemo, nella fretta sfuggono a tutti degli idrocarburi, e neanche Karl Kraus sarebbe stato Karl Kraus se avesse twittato con la frequenza di Calenda.

Ogni tanto mi chiedo cosa ne sarebbe oggi di George Bernard Shaw. Di “Pigmalione”, di “My Fair Lady”, di “Pretty Woman”: di tutte le storie in cui dovevi essere all’altezza dei soldi. In cui, se andavi alle corse dei cavalli con una dizione da mercati generali, un po’ ti vergognavi.

Adesso della dizione non frega niente neanche a chi lavora con le parole (non mi viene in mente uno scrittore italiano che parli in italiano, che sappia quali vocali chiudere e quali aprire), figuriamoci alla fioraia che rimorchia un aristocratico, figuriamoci all’aristocratico stesso.

Adesso, «la rana in Spagna gracida in campagna» sarebbe probabilmente considerata una scena di violenta appropriazione culturale, vessazione della plebe, abilismo.

Adesso l’invito a migliorarsi è una prepotenza se lo fai al multimilionario in difficoltà coi sinonimi, figuriamoci se puoi osare rivolgerlo a una categoria considerata fragile.

Per non parlare delle lumache fatte volare a cena durante “Pretty Woman”: nessuno sarebbe così sciocco da far imparare le buone maniere a una che, con quel suo approccio genuino «sarò pure finita in mezzo ai dobloni ma sono una di voi», prende così tanti cuori su Tik Tok.

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