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A Milano, durante una delle ondate di caldo più estreme tra quelle che hanno colpito l’Europa nella scorsa estate, dirigenti in giacca e cravatta si precipitavano giù dai taxi per infilarsi negli uffici con l’aria condizionata, mentre i turisti nel bar dello store di Ralph Lauren sorseggiavano dei mimosa sotto nuvole di vapore rinfrescante. Le tapparelle abbassate dietro le ringhiere di ferro dei balconi segnalavano che i residenti erano partiti per trasferirsi nelle loro case di vacanza. Sotto le finestre chiuse, i rider dei servizi di food delivery pedalavano sotto il sole per portare sushi e poke bowl negli uffici.
In un’altra zona di Milano, sulla pista incandescente dell’aeroporto, gli addetti ai bagagli inzuppati di sudore scaricavano le valigie dagli aerei. E, lungo l’autostrada che collega Milano al mare, gli operai indossavano i giubbotti di sicurezza sul petto nudo e bruciato dal sole, trascinando secchi di cemento nel caldo torrido. Nell’Europa meridionale le temperature in quel periodo avevano oltrepassato i quaranta gradi e per i giorni successivi ci si aspettava un ulteriore aumento. Anche se tutti percepivano il caldo torrido, l’ondata di calore stava comunque evidenziando l’esistenza di un profondo divario tra chi poteva permettersi di ripararsi e chi no.
Gli eventi meteorologici estremi, che sono diventati sempre più comuni e più intensi a causa del cambiamento climatico, hanno messo in evidenza il fatto che sono i malati, gli anziani e i più poveri ad affrontare i maggiori pericoli e che tra le persone più a rischio ci sono dei lavoratori a cui spesso si presta poca attenzione (lo stesso era accaduto con la pandemia). Durante l’ondata di calore che l’estate scorsa ha colpito l’Italia, un operaio che stava lavorando alla manutenzione di una strada era collassato mentre lavorava vicino a Milano ed era poi morto in ospedale. Nella periferia di Firenze, un addetto alle pulizie era svenuto in un magazzino ed era morto poco dopo. Entrambi i decessi, sulle cui cause sono state aperte delle indagini giudiziarie, hanno rinvigorito le preoccupazioni sulla letalità del recente aumento delle temperature.
Secondo uno studio, in Europa nel 2022 le ondate di calore hanno ucciso più di sessantunomila persone. Sebbene non sia disponibile una ripartizione dei motivi dei decessi per quel che riguarda quell’anno, gli esperti hanno affermato che in un’ondata di calore del 2003, che ha ucciso fino a settantamila persone, la maggior parte dei morti era composta da persone a basso reddito.
«La maggior parte delle volte il caldo ti fa venire il mal di testa», spiegava l’estate scorsa Naveed Khan un ciclista che consegnava generi alimentari, prima di tuffarsi nel traffico milanese. Per gestire il disagio, un giorno su due Khan si prendeva degli antidolorifici, ma non poteva fermarsi: «Un altro lavoro non ce l’ho», spiegava. Il trentanovenne Khan, con una moglie e due figli a carico, diceva: «Se hai un vero e proprio lavoro, puoi fare una pausa dal caldo, ma se io mi prendo una pausa, loro che cosa mangeranno?».
Secondo diversi studi, i più vulnerabili di tutti sono i lavoratori più esposti al calore e alla luce del sole. «Le ondate di calore non colpiscono tutti allo stesso modo», affermava Claudia Narocki, una sociologa che nel 2021 ha scritto un rapporto al riguardo per lo European Trade Union Institute: «E, paradossalmente, i lavori più esposti sono quelli pagati peggio». In quel rapporto si legge che tra le persone più a rischio di disidratazione e di sovraesposizione al calore ci sono gli immigrati, i lavoratori autonomi e quelli retribuiti a cottimo, ma molti non si rendono conto che si tratta di un gran numero di soggetti. «Nel 2022 si dibatteva su quale dovesse essere la temperatura negli uffici con l’aria condizionata», diceva Narocki. «Ma fuori dai luoghi climatizzati c’è un intero mondo».
Quel giorno dell’estate scorsa, a Milano, tutto ciò era del tutto evidente, mentre il maître del bar di Ralph Lauren raccontava che molti clienti abituali erano andati in vacanza e le folate d’aria fredda che soffiavano fuori dai negozi di lusso rinfrescavano almeno per un istante coloro che non potevano permettersi di fare una pausa. Intanto, la casa automobilistica di lusso Lexus, che aveva in programma la presentazione a tema autolavaggio di un nuovo SUV a Palazzo Bovara, nel centro di Milano, definiva il suo evento promozionale come uno spazio «rigenerante» per gli ospiti, che avrebbe permesso loro di «rilassarsi e sfuggire al caldo estivo della città».
Tutto questo non era stato altrettanto rigenerante per coloro che, in vista di quell’evento, avevano dovuto cucire un enorme telo di plastica a un’impalcatura sotto il sole delle due del pomeriggio. Gli operai, in equilibrio su delle scale metalliche all’esterno del palazzo, grondavano sudore. «È una cosa letale», diceva Marco Croci, che stava dirigendo i lavori di costruzione: «Però lo dobbiamo fare. È un evento, e l’evento ci sarà comunque». Simon N’doli, lavora come lavatore di automobili, tramite una app che consente ai clienti di farsi pulire la macchina ovunque lo desiderino.
Un giorno della scorsa estate, in cui il caldo superava i trentaquattro gradi, N’doli stava lavando una Tesla bianca parcheggiata sotto il sole cocente, davanti a un bistrot. Aveva chiamato il proprietario per chiedergli di spostare l’auto all’ombra, ma quest’ultimo gli aveva risposto che era andato in palestra. «A volte ti chiedi se sia normale lavorare in questo tipo di situazione», diceva quel giorno il quarantenne N’doli. «E pensi che forse ti meriti qualcosa di meglio». Raccontava che nell’ultimo mese aveva lavorato tutti i giorni, tranne uno. E che a volte, quando tornava a casa dopo essere stato piegato tutto il giorno intorno alle macchine sotto al sole, gli faceva male tutto il corpo. Le disparità erano per lui un pensiero assillante, diceva. «Perché ci sono delle persone che in questo momento sono dentro un ufficio?», si chiedeva, guardando gli alti edifici intorno a lui. «C’è una certa disuguaglianza, una certa ingiustizia». Quando il proprietario dell’auto era tornato, aveva chiesto a N’doli di mettere un prodotto “premium” sulle gomme. E così N’doli si era rimesso a strofinare.
La scorsa estate le morti ravvicinate dei due operai hanno sollecitato un dibattito intorno ai modi in cui avrebbero potuto essere evitate. I sindacati hanno affermato che le aziende dovrebbero sospendere l’attività se il caldo diventa troppo pericoloso e che devono fornire ai O lavoratori acqua e un luogo fresco in cui riposare. I funzionari della Sanità italiana hanno raccomandato ai lavoratori di fare frequenti pause e di spostare i turni di lavoro nei momenti della giornata in cui il caldo è meno intenso. Ma per molte persone che svolgono lavori poco remunerati, è difficile trovare sollievo anche quando la giornata lavorativa è finita. «Non posso permettermi un condizionatore», raccontava l’operaio siderurgico Salvatore Raccuià, cinquantacinque anni, mentre sedeva all’ombra in un bar vicino a casa, al Giambellino. Molti edifici di edilizia popolare sono vecchi e molte delle persone che vi risiedono dicono che d’estate sembrano dei “forni”.
Un addetto al trasporto merci in pensione raccontava di essersi arrangiato riempiendo la vasca da bagno con dell’acqua ghiacciata. Per uno degli abitanti del quartiere la preoccupazione maggiore era che presto non avrebbe avuto alcun riparo dal caldo: Alin Andronache, disoccupato, aveva infatti ricevuto da poco una lettera che gli intimava di lasciare l’appartamento popolare in cui viveva con la moglie in quanto lo avevano occupato abusivamente. Andronache, quarantotto anni, diabetico e cardiopatico, aveva trascorso gli ultimi giorni di caldo torrido a impacchettare i suoi vestiti, in attesa di una visita della polizia.Che ne sarà di noi per strada con questo caldo?», si chiedeva la moglie, Irina Nicolae, preoccupata per la salute del marito. «Che cosa succede se uno muore?».