Ho ascoltato per la prima volta Orville Peck diversi anni fa: era estate, con una vecchia jeep scassata vagavo per le strade interne di un Salento desolato, lontano dalle mappe geografiche di inglesi e milanesi alla ricerca del casolare distrutto da rimettere a nuovo, puntellandolo di pezzi di design concepiti a ben altre latitudini, per riempirsi le bocche di “Southworking”. Era tardi, la sera era già scesa, si tornava alla masseria fortificata di cui si era ospiti utilizzando strade poco illuminate, e sembrava di essere sul set di un film di Lynch. La playlist di Spotify pensata per l’occasione si era esaurita, e si era attivata una riproduzione casuale che cercava di posizionarsi sulle stesse note. Era partita allora “Dead of Night”, e sembrava che la voce che la cantava, profonda e insieme delicata, fosse accanto a me, in macchina, quella stessa sera.
«The sun goes down, another dreamless night
You’re right by my side
You wake me up, you say it’s time to ride
In the dead of night
Strange canyon road, strange look in your eyes
You shut them as we fly, as we fly»
Come potevano le strade strette, polverose e deserte, che collegavano la torre di Sant’Isidoro a Copertino, assomigliare anche solo vagamente alle vaste spianate di cemento che si muovevano come torpedoni tra i monumentali canyon americani? Eppure, qualcosa in quella voce sembrava suggerire che gli Stati Uniti degli spazi vasti, con quelle strade da domare a cavallo o in sella a una Ford Thunderbird, fossero più uno stato mentale che un effettivo luogo geografico, e che fosse possibile, in Puglia come in Arizona o nello Utah, sentirsi preda di un qualche incantesimo lisergico, guidando nel cuore della notte.
Ho contrassegnato quella canzone con un cuore, ripromettendomi di approfondire il mistero di quella voce appena tornata a casa. “Dead of Night”, ho scoperto poi, era all’interno di “Pony”, album d’esordio (2019) di Orville Peck, nom de plume dell’artista sudafricano ma residente in Canada che nascondeva il suo volto e la sua identità dietro elaborate maschere dotate di frange. Un accessorio, quella maschera, che regalava un’aura di pericoloso mistero a un look da cowboy che appariva progettato per titillare gli appetiti di donne, ma soprattutto uomini. Orville Peck, l’artista che sembra esser stato disegnato da Tom of Finland di ritorno da un viaggio in Texas, con quella voce da Johnny Cash salutista, privo degli eccessi e delle asperità regalate al “Man in black” da alcool e sigarette, è apertamente gay. E, casomai non fosse chiaro dall’estetica dei video musicali, ci pensa lui a ribadirlo raccontando di amori al maschile consumati in qualche roadhouse nell’anticipazione della nostalgia che avrebbero provocato, a ricordarli anni dopo.
Negli anni che sono seguiti, Orville Peck ha realizzato altri due album (l’ultimo, il volume uno di “Stampede”, è da poco uscito) e nel frattempo il country è divenuto l’ossessione di musica, moda, e del mondo della cultura in generale, che riflette da un po’ su come sia stato possibile far evolvere un genere impantanato in un’immagine stereotipata (bianca, razzista, omofoba), tramutandolo in ciò che è oggi: luogo di apertura e addirittura osservatorio su un futuro che non contempli solo la trap in cima alle classifiche. Se il pubblico generalista pensa che questo encomiabile risultato sia dovuto a Beyoncé o all’estetica di Louis Vuitton, che ha abbracciato il country grazie al suo direttore creativo Pharrell Williams, la realtà è che nulla di tutto ciò sarebbe stato possibile senza una figura di rottura come Orville Peck.
«Secondo me siamo in un momento storico nel quale la gente sta sviluppando una certa consapevolezza in merito» spiega lo stesso Orville, quando lo raggiungo per una call su Zoom a telecamere spente. «Il country è un genere che nasce come estremamente variegato, anche nella sua strumentazione: il banjo fu portato dall’Africa dagli schiavi, la chitarra pedal steel arriva dalle Hawaii. Se poi pensiamo all’estetica, beh, il look dei cowboy è figlio diretto del Messico. In passato forse ce ne si è dimenticati, ma il country è un genere creato da tutti, quindi deve obbligatoriamente essere per tutti. E credo che chi lo ascolta ora abbia realizzato che ha tutto il diritto di sentire una certa connessione con il genere, perché probabilmente la ha». Un contributo, quello di Peck, talmente rilevante a livello sociale da meritarsi questo maggio il Vito Russo Award della trentacinquesima edizione dei Glaad diversity award, conferitogli dalle mani dell’amica Jennifer Lawrence per via del suo impegno a favore della rappresentazione della comunità LGBTQIA+.
Nel suo discorso, l’attrice premio Oscar ha parlato di Peck come «la definizione stessa dell’apripista, un musicista autodidatta, la cui potenza lirica e l’incredibile voce sono compresse in un unico, assai sexy, corpo». Il gagliardetto di “pioniere”, però, non è uno di quelli che si guadagna facilmente, tra colleghi e sodali che si aprono al tuo passaggio, agevolandoti il percorso: «È stato difficile all’inizio», ammette lo stesso Peck, «ma è una cosa della quale mi sono reso conto molto dopo. Sul momento ero estremamente determinato, sin da bambino ho avuto quest’ambizione implacabile, non ho mai permesso a nessuno di dirmi di no. Oggi, se ci penso a mente fredda, è stata una lotta per diversi anni: farsi prendere sul serio dal mondo del country, far sì che la mia musica venisse accettata. Però, se me lo chiedi, non avrei voluto che andasse diversamente, che fosse più semplice: quelle difficoltà hanno modellato gran parte dell’essere umano e dell’artista che sono oggi».
Sulla strada, però, Orville ha incontrato anche degli alleati apparentemente inaspettati: è il caso di Willie Nelson, novantenne leggenda del country, totem vivente del genere, che con Peck ha voluto incidere la cover di “Cowboys are secretly frequently fond of each other”, canzone del 1981 di Ned Sublette, e primo singolo estratto da “Stampede Vol. 1” (tra gli altri ospiti dell’album ci sono nomi come Kylie Minogue, Diplo, Beck ed Elton John). Un’idea che è venuta un paio di anni fa al musicista texano, la cui reputazione e carriera sono talmente inattaccabili da rendere il suo sostegno a Peck ancora più prezioso. Nel video condiviso su YouTube, uomini e donne queer ballano insieme in un locale, anche se tra le varie idee per la sceneggiatura c’era la possibilità che i due cantanti si unissero in un matrimonio gay, officiato dalla moglie di Nelson, Annie, presente nel video come comparsa. Una proposta venuta dallo stesso Nelson, che ha voluto girare le scene in esterna nel suo ranch in Texas.
«Sono fan di Nelson da tutta la vita, e mi sconvolge ancora l’idea di aver avuto l’opportunità di duettare con lui», spiega Peck. La realtà, aggiunge, «è che il country è da sempre pieno di personalità importanti, avvolte nel mistero, con una certa propensione alla teatralità. Forse, rispetto a oggi, quando ero bambino io si giocava molto di più anche con l’immagine, c’era una certa eccitazione nella scoperta. Avrò visto migliaia di volte “9 to 5” (in italiano dalle 9 alle 5… orario continuato, commedia del 1980 con Dolly Parton, Lily Tomlin e Jane Fonda, la cui traccia omonima, presente nella colonna sonora, vinse il Grammy award come migliore canzone country, ndr). Dolly Parton nei miei occhi di bambino assomigliava a certi personaggi della tv come Pee Wee Herman (personaggio comico immaginario creato dagli attori Paul Reubens e Phil Hartman, ndr) o Elvira (dark lady gotica interpretata dall’attrice Cassandra Peterson e che presentava una rubrica di film horror sull’emittente televisiva losangelina KHJ tra il 1974 e il 1998, ndr)».
Peck prosegue il racconto: «Dolly Parton è sempre stata una donna e un’artista fuori dall’ordinario. A piacermi molto era però anche la drammaticità del genere: il primo album country che ho ascoltato è stato “At Folsom Prison”, il disco registrato da Johnny Cash durante una sua esibizione per i detenuti del carcere di Folsom, in California. Quando si esibì in Folsom Prison blues (una canzone che aveva scritto più di dieci anni prima, ndr), le parole di quella canzone mi sconvolsero. Johnny Cash cantava “I shot a man in Reno just to watch him die” e si sentivano tutti i detenuti che iniziavano a urlare euforici. Mi ricordo di aver pensato che era una roba da pazzi. E ovviamente me ne sono innamorato: mi piace la capacità che ha il country di creare un luogo nel quale si incontrano la sincerità della vita, con le sue difficoltà anche drammatiche, la teatralità e un approccio dichiaratamente camp».
E di quelle qualità, Peck ha sicuramente mutuato una certa visione camp della moda, considerati i suoi completi (alcuni ultimamente realizzati in collaborazione con Levi’s). «Credo che essere alla moda e avere stile siano due cose abbastanza diverse», spiega. «Sono cresciuto disinteressandomi dell’argomento, ma mi è sempre piaciuto vestire in modo da lasciare messaggi. Quando poi ho iniziato ad avere una maggiore riconoscibilità sono stato contattato da diverse maison, ho lavorato con Dior, sono stato ospite di alcune sfilate alle principali Fashion week. A Milano ero da Diesel, ma Glenn Martens è un creativo che conosco da molto prima che entrambi diventassimo famosi, quindi è stato bello, e un po’ straniante, conoscendo il suo percorso, vederlo alla guida del brand».
Orville Peck deve andare: tra i prossimi progetti, oltre la promozione dell’album, c’è un tour che lo terrà impegnato tutta l’estate. Nelle sue storie Instagram dei giorni scorsi, oltre a video live dei suoi concerti, c’è un momento nel quale lo si vede, nel backstage, ballare sulle note di Lana Del Rey, artista che ha annunciato una svolta country con il suo prossimo album, “Lasso”, previsto per settembre. «Non è che tra le tracce di quell’album ritroveremo la maschera e la voce di velluto di Orville Peck?», chiedo speranzosa. L’artista erompe in una risata, e ci pensa un attimo prima di rispondere: «We can always dream». Basta poco per sentirsi di nuovo su quei canyon immaginari, alla guida di una decappottabile con una chitarra sul sedile del passeggero, pronti a un’altra avventura notturna a stelle e strisce (anche se ti trovi tra le dune sabbiose del Salento).
«Stark, hollow town, Carson city lights
Baby, let’s get high
Spend a Johnny’s cash, hitch another ride
We laugh until we cry
You say, “Go fast”, I say, “Hold on tight”
In the dead of night, dead of night».