Tempo di bilanciLuci e ombre di una Milano Fashion week che fatica a guardare al futuro

La settimana meneghina della moda maschile, terminata il 18 giugno, ha confermato il momento di difficoltà del fashion system, tra prezzi inaccessibili, continui cambi al vertice e fatturati in caduta libera. Non mancano, però, gli esempi virtuosi che rendono meno utopica un’inversione di tendenza

Courtesy of Gucci

In “Melancholia”, film di Lars von Trier del 2011, le due sorelle Justine e Claire (Kirsten Dunst e Charlotte Gainsbourg) si trovano di fronte a un’eventualità drammatica: quella della fine del mondo, causata dal pianeta che dà il titolo al film, e che inaspettatamente rispetto alle previsioni degli scienziati si sta dirigendo nell’orbita terrestre, preparandosi a colpire fatalmente il nostro universo. A differenza di registi come Nolan, von Trier è poco interessato alle ramificazioni dell’astrofisica o a un’aderenza scientifica della pellicola. Ad appassionarlo sono, invece, le reazioni psicologiche dei suoi protagonisti. 

Come potremmo reagire di fronte a una fine tragica, cosa faremmo in quelle ultime ore, come tenteremmo di dare senso a un percorso che, sappiamo benissimo, si interromperà di lì a breve? Pur non essendo di fronte a una minaccia così devastante, il sistema della moda come abbiamo imparato a conoscerlo negli ultimi trent’anni si trova indubbiamente in una condizione critica.

Ad ammetterlo per primo è stato Imran Ahmed, direttore del Bof, rivista online di moda, che nel suo pezzo The fashion System is creaking: Will it collapse?illustra le innumerevoli difficoltà con le quali il comparto economico deve confrontarsi. Una congiuntura geopolitica complessa: i prezzi delle maison saliti a livelli inarrivabili per tutti tranne che per quell’un per cento degli ultraricchi che i conglomerati ambiscono a vestire e rivestire; l’amministrazione giudiziaria imposta a società sospettate di operare attraverso subappalti opachi (Giorgio Armani Operations e Manufactures Dior); la crisi tra direttori creativi cambiati rapidamente, e però incapaci di catturare sul breve termine il plauso dei propri clienti o della critica social; i fatturati in caduta libera.

Problematiche che rendono l’aria su Milano densa in una nube umida di incertezza che ha avvolto le quattro giornate della Fashion week uomo per la primavera/estate 2025, incapace nella maggior parte dei casi di prospettare un futuro, al momento assai difficile, nella sua interezza. Di fronte a questo panorama così severo, dunque, è interessante vedere le risposte di maison e conglomerati dai fatturati gargantueschi, che devono necessariamente mandare in scena uno spettacolo a favore di pubblico e acquirenti, quando in un mondo ideale e anarchico sarebbe forse più saggio fermare l’orchestra e riaccordare con pazienza gli strumenti, mettendoli in sintonia con un’atmosfera che si muove su tutt’altri spartiti.

La sfilata di Fendi (AP Photo/LaPresse (ph. Nicola Marfisi)

Persino in casa Fendi, traghettata nel suo comparto uomo e accessori dall’instancabile Silvia Venturini Fendi, va in scena lo spettacolo dell’artigianalità, del punto selleria – tecnica tramandata alla dinastia matriarcale dai maestri sellai romani nel 1925. Uno dei capisaldi della maison si trasla così su completi gessati spezzati, si applica come superficie del denim giapponese boro, si ricama come logo rigato FF sul lino, mentre i dettagli in punto festone si ritrovano persino ai piedi, nelle sneaker Fendi Force. 

Al netto di una esibizione discreta del proprio savoir-faire e della mise en scène firmata da Nico Vascellari – con monoliti mobili a specchio che seguono i modelli durante la sfilata, creando ogni volta nuovi labirintici percorsi –, la sensazione è che questa collezione faccia il punto sugli ammirevoli risultati passati e presenti, più che concentrarsi sul futuro. Alla boa del suo centenario, mentre si rincorrono le voci su un cambio alla direzione creativa del brand romano (guidato nel comparto femminile da Kim Jones, che è anche direttore creativo dell’uomo di Dior, il cui show previsto a marzo ad Hong Kong è stato “posticipato in maniera indefinita”), Fendi affronta la tempesta storico-economica cercando di immaginarsi, come quei monoliti specchiati, nuovi percorsi, con tutte le difficoltà correlate.

Nello stemma araldico che ha decorato questa collezione c’è forse una risposta: oltre alle righe Pequin e il logo FF, si ritrovano lo scoiattolo (lo stesso di un dipinto regalato ad Adele Casagrande Fendi da suo marito Edoardo, a simboleggiarne la rapida operosità) e Giano, dio romano simbolo degli inizi e delle fini, incapace di rivolgere lo sguardo al presente ma con gli occhi puntati al futuro, e alle metamorfosi richieste per farvisi trovare pronti.

Ciò a cui la Fashion week, però, non era pronta era l’annuncio a sorpresa della collezione pre-spring 2025 di Maison Valentino, la prima firmata da Alessandro Michele, teologo massimo dell’accumulo, capace di produrre in pochi mesi il numero impressionante di centottantanove look. Avant les débuts, questo il titolo della collezione, è un percorso filologico in un Valentino più situato tra gli anni Sessanta e Settanta, decadi amate dal designer romano, piuttosto che nell’universo riduzionista e sofisticato a cui ci aveva abituato Pierpaolo Piccioli, ex direttore della stessa casa di moda. Forse appesantita da uno styling decorativista, l’operazione si pone come anticipazione di un debutto tra i più attesi, e che arriverà a settembre durante la fashion week parigina della donna. 

Dopo aver piacevolmente stupito con il suo debutto la scorsa stagione, al contrario, Adrian Appiolaza si è preso il tempo di esplorare gli archivi di Moschino, cercando tra l’infinito patrimonio artistico del brand nato da Franco la risoluzione ai dilemmi del presente. L’escamotage è nella Survival Jacket, la giacca originariamente prodotta per la primavera-estate 1992, che ritorna a Milano in versione urbana, adatta all’ufficio, e poi a ricordare una sahariana, più adatta a fughe esotiche. Appiolaza, in effetti, con la sua sottile ironia centra il punto del viaggio, della necessità di esplorare nuovi orizzonti per non soccombere alla pesantezza asfittica del presente. La collezione da uomo, accompagnata in passerella dalla resort donna, si chiama infatti Lost and found, ed è un invito surrealista – in pieno stile Duchamp – ad abbandonare la zona di comfort. 

Courtesy of Moschino

Tra i numerosi dettagli che caratterizzano gli abiti – come le bretelle trompe-l’œil, gli stereotipi dell’Italia in vacanza, i tranci di pizza trasformati in borse a mano, i vestiti decorati con palloni da calcio nel giorno della partita degli Europei che schiera la nostra nazionale contro l’Albania, le gonne ad A con dei colli di camicia in rilievo, le maniche delle camicie realizzate con dei polsini – c’è una proposta di futuro discreta, ma non timida. Abituati alle iperboli camp del direttore creativo precedente, al contrario, i raffinati esperimenti di Appiolaza appaiono contenuti, pur nei loro espliciti grafismi. Eppure, questo percorso di rinascita deve necessariamente costruirsi a tappe per risultare credibile.

Un iter che può anche essere doloroso e richiedere di alleggerirsi, abbandonare le norme prescritte, le stesse scritte da Franco Moschino su un fax presente nella collezione Primavera-Estate 1995 e che nella collezione vengono ridotte a brandelli per diventare una pelliccia in tyvek (materiale sintetico) bianco. La speranza di Appiolaza, e anche di tutti noi, è che privi delle certezze alle quali siamo abituati da tempo, della bussola ormai rotta con la quale ci siamo sempre orientati, possa diventare più semplice trovare una nuova direzione.

Più o meno dalle stesse premesse parte anche l’esplorazione di Miuccia Prada e Raf Simons, che inventano un mondo immaginario per alterare o affinare le nostre percezioni attraverso un rave fiabesco e al contempo angosciante, al quale ci si presenta con capi rubati agli armadi dei genitori. Un ratto visibile dalle proporzioni “sbagliate” dei capi, over o striminziti, e che porta i segni del tempo e dell’esperienza con maglioni all’apparenza stropicciati e dettagli in fil di ferro tra i colletti e sugli orli, con la nostalgia di panorami vacanzieri che appaiono sugli occhiali. Una collezione che punta all’anima delle cose, che scarnifica anche la sceneggiatura, con i modelli pronti a dirigersi verso un concerto con una maglia sulla quale si stampano i dipinti di Bernard Buffet, che escono da una capanna versione minimalista di certe abitazioni delle favole dei Grimm. Un luogo che nelle parole del brand è il “totem dell’essenziale”, un posto magico dal quale immaginare una nuova realtà.

Courtesy of Prada

A detenere il titolo di maestro dell’evasione dalla realtà è anche JW Anderson, che confeziona una collezione dai volumi sovradimensionati, perfetta per la Gen Z di TikTok a cui piacciono gli esperimenti materici dello stilista irlandese. Per l’occasione, cede anche a una collaborazione con Guinness, che sarà lanciata a novembre 2024. Le perle sulle felpe ricamano morbide schiume e le maglie si arricchiscono di serigrafie con il nome del brand fondato nel 1759 da Arthur Guinness. Non si sa quale contributo possa dare questa collezione all’analisi del presente, ma la capacità del designer di diventare virale – come nel recente caso della borsa Loewe a forma di pomodoro, figlia diretta o indiretta di un meme – è considerata di questi tempi un bene assai prezioso dalle maison, alla ricerca di una rilevanza nel mondo dei social. 

Chi invece è stato, suo malgrado, molto presente sui social ultimamente, è stato JordanLuca, brand fondato da Jordan Bowen e Luca Marchetto, per via di un jeans con quella che appariva una macchia frutto di una minzione inaspettata, divenuto fonte di una discussione accesa sulla fragilità del capitalismo, e andato sold out. Un momento di gloria social sul quale i due creativi non hanno voluto lucrare, concentrandosi piuttosto su una collezione dedicata alla danza e che si componeva di shorts con una zip orizzontale, top con scollo all’americana laminati e ossimori stilistici di seta duchesse e lycra.

Lo stesso brand, però, sembra essere arrivato a un bivio: se e come diventare grandi, sia come marchio sia in quanto creativi. Le premesse ci sono, infatti, il duo ha una passione e una sapienza che pochi hanno nella loro generazione per un argomento antico come la sartorialità e che sanno tradurre su cappotti punk con spalle imbottite, su giacche in tweed giapponese e pantaloni dai fit morbidi eppure rigorosi. È un argomento che, si spera, sarà oggetto di ulteriori e più approfondite esplorazioni, perché se le maison più note si rifugiano nelle certezze dell’abbigliamento classico, il duo italo-inglese, invece, possiede le competenze per rendere contemporaneo, ribelle, persino il completo formale e sarebbe un peccato vedere questo talento inutilizzato. 

Depositario di un sapere secolare che però si continua a rendere agile, adatto a tempi, è Alessandro Sartori da Zegna, che fa sfilare i modelli attraverso un’oasi di lino in un edificio industriale alle porte di Milano, riproponendo una dicotomia tra naturale e artificiale che si risolve serenamente in completi dalle nuance terracotta, dai volumi morbidi pensati per facilitare chi li indossa, con ai piedi le nuove scarpe Mocassin, indossate anche da Mads Mikkelsen, inaspettato modello in passerella. 

Courtesy of Zegna

Di incontri si parla anche da Gucci, dove si mischiano città e mare, luoghi del sapere e luoghi più ameni. La sfilata è infatti ambientata all’interno della Triennale di Milano, con un invito adatto all’ingresso nel Sancta Sanctorum del design, una squadra sulla quale è riportata una frase di Sant’Agostino: «La misura dell’amore è amare senza misura». Circondato da amici e testimonial del brand, tra cui l’attore Paul Mescal e il modello Clèment Chabernaud, Sabato De Sarno manda in scena giacche dai colori sorbetto decorate con frange di perline che si muovono come onde, polo a maniche lunghe lavorate a mano con intarsi di paillettes, giacche in pelle over con colli a contrasto che appaiono in velluto a coste (ma è pelle goffrata). 

Al netto di stampe infinity con surfisti, delfini, fiori di ibisco e foglie di banano che devono molto all’universo di Prada – ma d’altronde, chi non è mai stato influenzato, come designer, dal caleidoscopico lavoro grafico del brand? – la collezione è vivace. In più, traspare il maggiore agio nel quale il designer si sente nell’immaginare l’abbigliamento maschile. Il lavoro sulle borse è coerente nel guardare alla valigeria d’archivio, con il logo bonded sulla pelle spazzolata e un sistema di componenti rimovibili. 

Il designer sta evidentemente facendo tutto ciò che è nelle sue possibilità per regalare una nuova identità al brand, ma sconta – in quanto unica figura “visibile” e direttore creativo della maison trainante dell’intero gruppo – peccati che non sono i suoi, ma piuttosto del conglomerato del lusso Kering, particolarmente in difficoltà in questo momento storico, con dei fatturati rivisti al ribasso (con perdite evidenziate nel primo quadrimestre 2024 anche per Saint Laurent al – 8 per cento e Bottega Veneta al -2 per cento). I successi dei brand non dipendono mai soltanto dalla singola direzione creativa, ma anche dal lavoro corale di tutti i compartimenti – soprattutto nel caso di un brand storico come Gucci – che oggi sembrano arrancare nel tenere il passo con un presente, in effetti, assai complesso. 

Courtesy of Magliano

Al contrario, di lavoro collettivo si può parlare quando ci si riferisce a Magliano: non solo in quanto il suo fondatore parla sempre al plurale, riferendosi alle persone che formano l’anima della sua squadra (il fashion director Nunzio Del Prete, che si occupa anche dello styling di Moschino, la stylist Elisa Voto, lo scenografo Davide Stucchi, il finanziatore assai giovane e visionario del progetto, Edoardo Di Luzio), ma anche perché in questa collezione vanno in scena dei maglioni ricamati che portano la doppia firma Magliano/Cormio, a simboleggiare una stima incondizionata tra colleghi e coetanei alle prese con l’immensa difficoltà di far nascere e tenere in vita dei progetti all’interno di questo scenario storico. In effetti, sono stati molti i suoi colleghi presenti alla sfilata, a testimoniare la nascita di una nuova società di mutuo soccorso che è mancata alle passate generazioni. Ci sono Francesco Risso ( Marni) Adrian Appiolaza (Moschino) Giuliano Calza (GCDS), Veronica Leoni (Calvin Klein), Niccolò Pasqualetti ( finalista al Lmvh Prize) Jezabelle Cormio (Cormio). 

Per questa collezione, Magliano elegge a eroe di stagione il Pinocchio di Collodi come simbolo primigenio dei ricordi dell’infanzia, insieme alla scrittrice Cristina Campo. I frammenti di identità trovano una risoluzione nel punto croce, i cappotti si integrano con degli asciugamani, i pantaloni diventano costumi da bagno, le silhouette sono essenziali come prescrive la moda dei primi anni duemila, ricordata anche dal gruppo musicale Prozac+ che suona sul finale. Ritorna una celebrazione alla community queer nelle stampe che rielaborano i quadri di Giorgio Morandi (firmate da Giovanni Copelli – pittore italiano – già autore di alcune campagne di Magliano). Al posto di nature morte e fiori, tipici delle composizioni di Morandi, qui appaiono bottiglie, boccette, telefonini dal frontale spaccato e falli in gomma che ricordano la pratica del chemsex, nata in Gran Bretagna e che utilizza sostanze chimiche per migliorare le prestazioni sessuali.

Dopo la fine dello show c’è stata la conferenza stampa improvvisata nel backstage, dove Luca Magliano – con fogli in mano e una maglia con stampata Irma Bandiera, una delle prime donne a unirsi alla resistenza al regime fascista – racconta della collezione come di un processo lento ma inesorabile. Il percorso è stato una scoperta di sé stessi, della necessità di mettere in fila, in passerella, l’alfabeto della sua estetica, forse in una forma meno emozionale e sofferta delle precedenti collezioni, ma non per questo meno d’impatto. La sua rabbia, la sua idea di società, di politica, è tutta lì, e mai come in questa collezione è sembrato a suo agio nel mostrarla: «Adesso ho capito perché ho fatto tutto questo percorso: per avere una voce e vorrei usarla», ha detto.

Sul finale di “Melancholia”, Justine e Claire, lucidamente distaccate e rassegnate nei confronti dell’inevitabile, si rifugiano in una fittizia “grotta magica”, placebo geografico e psicologico a una fine che non risparmierà nessuno. Se invece di chiudersi nelle proprie ossessioni e mitomanie, allontanandosi da qualunque forma di risposta collettiva, avessero anche loro provato a usare la propria voce, il finale del film sarebbe stato lo stesso. La moda, però, non è ancora al punto di non ritorno di “Melancholia”, e si spera che quella voce, quel coraggio, riesca a trovarlo. Perché il sistema è sul punto di collassare, come sostiene Imran Ahmed, e non rimane molto tempo per invertire la rotta.

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