Questo è un articolo del nuovo numero di Linkiesta Magazine + New York Times Big Ideas in edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia da mercoledì. E ordinabile qui.
Con il suo solito atteggiamento da impunito in chief, qualche tempo fa Donald Trump ha detto che, in caso di rielezione a novembre, per rimettere le cose a posto farà il dittatore, bontà sua, solo per un giorno: ma comprereste un’auto usata dal campione delle truffe?
La Corte Suprema, dove lui ha nominato tre militanti del movimento Make America Great Again che hanno fagocitato un altro giudice mattoide e altri due pusillanimi forgiando un’inattaccabile maggioranza di giuristi picchiatelli, ha risposto a inizio luglio dicendo che Trump potrà farlo, perché il presidente è da considerare immune qualunque cosa faccia, anche un reato, nell’esercizio dei suoi poteri costituzionali.
Sonia Sotomayor, una dei tre giudici sani di mente rimasti nella Corte, ha dissentito sull’immunità presidenziale, specificando che, secondo il ragionamento della maggioranza dei giudici supremi, Trump «ogni qual volta userà i suoi poteri ufficiali in qualsiasi modo sarà comunque protetto da eventuali accuse penali. Ordinerà al Team 6 dei Navy Seal di assassinare un rivale politico? Immune. Organizzerà un colpo di Stato militare per mantenere il potere? Immune».
Immaginate che cosa se ne farà, Trump, di questo nullaosta a violare la legge, visto che ha già incitato all’assalto del Congresso e al linciaggio dei deputati e del suo stesso vicepresidente Mike Pence.
La democrazia americana è la più longeva del pianeta e trova sempre un modo per rigenerarsi, ma in passato ha anche dovuto affrontare una guerra civile e poi la segregazione razziale. Siamo vicini a scenari di crisi di questo livello di drammaticità, come dimostra l’intervista di David Brooks del New York Times a Steve Bannon, l’ideologo del neo nazionalismo americano attualmente in galera per non aver voluto rispondere al Congresso.
Bannon spiega che questa è una guerra, che gli avversari vanno cancellati, le frontiere chiuse, gli studenti stranieri ridotti del 50 per cento e comunque cacciati una settimana dopo la laurea, gli ucraini abbandonati seduta stante. E, soprattutto, Bannon sostiene che Trump è il rappresentante moderato, equilibrato e pacifico del movimento insurrezionale che si vuole prendere l’America col voto, e se serve con la violenza, senza fare prigionieri.
Uno scenario da tregenda e da fine della democrazia americana e del secolo di pace e prosperità che gli Stati Uniti hanno garantito in Europa e altrove.
C’è rimasta a disposizione una sola possibilità per evitare l’American carnage, la carneficina trumpiana, ed è quella che il candidato democratico sconfigga alle urne questa manica di fanatici e di profittatori.
Joe Biden è in difficoltà, gli eventuali sostituti non garantiscono un colpo sicuro, e anch’io non mi sento molto bene.
In questo numero di Linkiesta Magazine raccontiamo “l’età dell’insurrezione”, a partire dallo splendido libro di Robert Kagan Insurrezione che pubblicheremo dopo l’estate con Linkiesta Books, fino alle diramazioni europee e alle miserie italiane di questo movimento ribelle. C’è anche un’insurrezione positiva, per fortuna, come quella dello splendido popolo ucraino, che continua a resistere e a combattere, e quella dei ragazzi georgiani, che scendono sul Viale Rustaveli, la Maidan di Tbilisi, per contrastare la cosiddetta “legge russa” contro il dissenso e i disegni coloniali di Vladimir Putin. La Big Idea che invece ci offre la nostra collaborazione con il New York Times è una riflessione su che cosa abbiamo paura. Be’, qui a Linkiesta abbiamo paura di questo, di uno scenario che porta all’inesorabile decadimento della democrazia americana e all’indebolimento della società aperta.
Nel 2004, la band americana The National scrisse una canzone, Mr. November, il cui testo rifletteva su quanto potesse risultare sgradevole alle persone perbene condurre una campagna elettorale per le elezioni presidenziali.
I National la scrissero per l’allora candidato democratico John Kerry, ma la canzone diventò politica quando nel 2012 fu dedicata a Barack Obama. Al concerto di giugno a Milano, Mr November (novembre è storicamente il mese delle elezioni presidenziali americane), i National l’hanno dedicata a Joe Biden. Il ritornello «I won’t fuck us over, I’m Mr. November», «Non ci rovinerò, sono Mister Novembre», è di particolare attualità, viste le difficoltà senili di Biden e il dibattito sulla sostituzione del ticket democratico per riuscire a fermare alle elezioni Trump e i suoi facilitatori. Joe Biden è stato un Mr. November formidabile, avendo defenestrato Trump quattro anni fa, e solo per questo merita grandi ringraziamenti ed enorme rispetto. Il presidente, però, non è più quello di allora, mentre i suoi possibili sostituti non è detto che siano all’altezza del compito di salvare la democrazia americana.
Sulla scheda elettorale, in ogni caso, ci sarà la governatrice del Michigan Gretchen Whitmer, o i governatori della California e della Pennsylvania Gavin Newsom e Josh Shapiro, oppure l’attuale vicepresidente Kamala Harris o chissà chi altro. Chiunque sarà Mr. o Mrs. November, l’importante è che, una volta in campo, «won’t fuck us over», non ci rovini.
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