Di lotta e di (poco) governoCon il no a von der Leyen, Meloni è rimasta nel girone dantesco dei patrioti

La presidente del Consiglio ha giocato malissimo la partita delle nomine, isolando il nostro paese e rendendosi ininfluente in Europa

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Un vero pasticcio, una grande confusione, un umiliante autoisolamento, l’incapacità di Fratelli d’Italia di evolversi in una destra europea a tutto tondo. Mai nemici a destra, magari aspettando il duo Trump-Vance per completare l’opera. L’aspetto più incredibile della sgangherata manovra di Giorgia Meloni a Strasburgo è stata la furbata di non dire prima sì o no a Ursula von der Leyen. Ha aspettato di vedere come finiva la votazione a scrutinio segreto, senza il soccorso dei suoi ventiquattro eurodeputati, per comunicare il suo no. 

Un gioco imbarazzante nell’ombra. Magari qualcuno dei fratelli di Giorgia potrà dire che una decina di voti sottobanco sono arrivati, altrimenti non si capisce perché aspettare l’esito del voto. Un aiutino per neutralizzare i franchi tiratori? Sarebbe una ridicola pezza a colori sopra lo strappo tra Ursula e Giorgia, che fonti vicino alla presidente del Consiglio smentiscono categoricamente: «Siamo gente seria. Gli accordi li facciamo alla luce del sole». Il no è motivato dall’apertura ai Verdi.

Più probabile invece che il voto contrario la presidente del Consiglio italiana l’abbia maturato quando la presidente della Commissione europea le ha negato la vicepresidenza esecutiva per il commissario italiano. Non bastava un portafoglio importante per Raffaele Fitto (vedremo adesso quanto pesante). Meloni pretendeva un cambiamento di rotta su dossier come il Green deal e il riconoscimento della presunta virata a destra alle elezioni europee. Voleva la luna, voleva che il Partito Popolare europeo si emancipasse dai Socialisti senza avere la forza e i voti per compensare quello che a von der Leyen sarebbe venuto a mancare dalla sinistra e dai liberali. 

Ha giocato su due tavoli, mescolando il piano istituzionale del governo con le dinamiche politiche del Parlamento europeo. Ma la furbata non è riuscita e non ha potuto mettere «il cappello sopra la vittoria» di Ursula, come ha riconosciuto il copresidente dei Conservatori (Erc) Nicola Procaccini. «Noi restiamo moderati nei toni, ma estremamente fermi nei principi. Per noi – ha aggiunto Procaccini – votare von der Leyen avrebbe significato andare contro alcuni nostri principi». Se la presidente della Commissione Ue avesse invece concesso la vicepresidenza esecutiva sarebbe bastato per mantenere fede ai principi? Oppure non sarebbe bastato perché era necessaria pure un’inversione di rotta sulle politiche ambientali, ben sapendo che von der Leyen sarebbe finita ko con la conseguente crisi istituzionale dell’Unione europea?

Ora Meloni rivendica coerenza tra il voto di ieri e quello di astensione espresso al Consiglio europeo, confondendo appunto i due piani. Dice di non aver mai condiviso «il metodo e il merito, ma questo – secondo lei – non comprometterà la collaborazione su molte materie, come l’immigrazione, e il ruolo dell’Italia nella Commissione».

Meloni, il governo e l’Italia intera nel girone dantesco dei patrioti lepenisti, ungheresi, leghisti, vannacciani. Matteo Salvini infatti esulta per lo sventato inciucio. Il capo del Carroccio è riuscito a mettere in difficoltà Meloni con l’aiuto di Marine Le Pen. Possiamo facilmente immaginare cosa passi per la testa di Antonio Tajani che dovrebbe rappresentare i moderati nel centrodestra, quei moderati «di sfida» e non «di resistenza» di cui ha parlato proprio un giorno fa Piersilvio Berlusconi, uno dei principali finanziatori di Forza Italia. Il ministro degli Esteri ha provato a mediare fino all’ultimo secondo per un voto favorevole dei Fratelli d’Italia. 

Non è bastata neanche l’ultima telefonata di mercoledì, in tarda serata, tra Ursula e Meloni. La tedesca le ha offerto la delega alla sburocratizzazione, al Bilancio, al Pnrr, ai fondi di coesione, una rinnovata azione comune per il contrasto all’immigrazione. E la promessa di andare fino in fondo con quello che Meloni chiama Piano Mattei per stringere le maglie ai confini esterni dell’Europa. Non ha mollato invece sulla vicepresidenza esecutiva e non ha fatto marcia indietro sul Green deal. Niente da fare. Tajani ha dovuto prendere atto della figuraccia (aveva assicurato von der Leyen i voti dei meloniani).

Per non parlare dell’umore che avrà il capo dello Stato. Nelle tante vicissitudini che in questi lunghi anni a Quirinale si è trovato ad affrontare, adesso si trova di fronte al primo caso nella storia comunitaria in cui il presidente del Consiglio italiano si astiene al Consiglio europeo sul presidente e fa votare contro a Strasburgo. Nelle stesse ore della rottura a Strasburgo, in Brasile Sergio Mattarella diceva che c’è urgenza di una transizione verde perché per troppo tempo abbiamo affrontato in modo inadeguato la questione della tutela dell’ambiente e del cambiamento climatico. 

Che succede adesso. Meloni si tiene le mani libere a Strasburgo, provando a condizionare dall’opposizione e con maggioranze variabili le politiche della Commissione e del Consiglio europeo: due organismi apicali in cui siede con il commissario italiano e come presidente del Consiglio. Di lotta e di governo. Un paradosso e una contraddizione che difficilmente potrà gestire quando presto, molto presto, dovrà fare due conticini per scrivere la legge di Bilancio 2025 e gestire i tanti dossier con le stesse parti politiche, Socialisti in testa, con cui non ha voluto mescolare i suoi voti.È l’inizio della fine oppure Meloni si è messa sulla sponda del fiume in attesa del voto americano?

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