Natoli come DavigoI membri dei Csm che rivelano segreti sono felloni anche se non sono delinquenti

Il caso della consigliera del Consiglio superiore della magistratura eletta in quota La Russa, finita in un fuoco incrociato di indagini giudiziarie, rivela ancora una volta come la destra sia garantista solo con chi vuole lei

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Tra i vari modi in cui la destra italiana degrada la cautela garantista a clausola di stile di una politica penale – e di una politica tout court – perennemente in bilico tra la retorica della forca e quella dell’impunità c’è quello razzisticamente galantomistico, che non discrimina le condotte, ma le persone e quindi ne ritiene alcune meritevoli di garanzie e altre no, fino a teorizzare un diritto doverosamente perbene e un altro necessariamente permale a seconda della natura dei destinatari. Un diritto per i “buoni” separato dal diritto per i “cattivi”. Un diritto penale del nemico, come usa dire, con vie di fuga garantite per gli amici e per gli amici degli amici.

È in base a questa doppiezza che quegli stessi che proclamavano il dovere di difendere, in nome del garantismo, Daniela Santanchè e il suo scranno ministeriale dalle accuse di malversazione fino a sentenza definitiva, ritenevano obbligate le dimissioni da deputato di Aboubakar Soumahoro, in quanto genero e marito di due indagate per malversazioni analoghe. Il congiunto delle indagate, non accusato di nulla, ma intrappolato nell’inchiesta per proprietà transitiva familiare e razziale, non era appunto meritevole dei riguardi riservati alla ministra in quota Ignazio – e ad Ignazio il ragionamento, come vedremo, tornerà.

Accanto al principio delle geometrie variabili di sommersi e salvati dalla gogna, c’è però un modo ancora più oltraggioso che usa la destra per smerdare il garantismo e sfigurarne il senso e la funzione: è quello di trasformare la presunzione di innocenza in uno scudo paradossale – e, visti i tempi della giustizia, semipermanente – di immunità, non solo sospendendo qualunque giudizio politico in attesa di quello penale, ma denunciando come indebita e ignominiosamente giustizialista qualunque censura rispetto a fatti e comportamenti finiti nel mirino della magistratura inquirente.

È una sorta di eterogenesi dei fini e di uso parassitario del panpenalismo: predicare la necessità che qualunque emergenza, reale o percepita, assuma rilevanza penale destituisce di rilievo politico negativo qualunque condotta, che non sia imputata e riconosciuta come delitto. Che l’autonomia della politica presupponga criteri, ovviamente discutibili, ma non arbitrari di onorabilità e rispettabilità diversi e superiori a una fedina penale immacolata cessa di essere, per i collitorti dell’anti-giustizialismo di fazione, un argomento legittimo nel momento in cui non si è fatta chiarezza sulla macchia giudiziaria che la minaccia. Invece, quasi nulla dice di per sé un’assoluzione e neppure, del resto, una condanna sulla disciplina e l’onore richiesto, per prescrizione costituzionale, nell’assolvimento delle funzioni pubbliche. Non sono le sentenze, per fortuna, a rilasciare patenti di etica civile.

L’ennesima dimostrazione di questa attitudine a buttarla garantisticamente in caciara è data dall’atteggiamento con cui l’intero centrodestra, senza una sola eccezione, fosse pure individuale, sta trattando il caso della consigliera del Consiglio superiore della magistratura ed ex componente della Commissione disciplinare Rosanna Natoli, eletta in quota Ignazio a Palazzo dei Marescialli, che ha incontrato riservatamente una magistrata sottoposta al giudizio della Commissione, chiacchierando liberamente con lei del procedimento che la riguardava e dispensandole amorevoli consigli, di cui tutto si è appreso perché la magistrata ha registrato il colloquio, poi reso pubblico dal suo avvocato.

Questa vicenda è finita adesso in un fuoco incrociato di indagini giudiziarie, in cui Natoli compare in parte come accusata e in parte – ci ha informato il ministro Nordio, sempre con l’aplomb di uno di passaggio – come accusatrice e dunque…? Dunque: niente. Va bene così, aspettiamo che la giustizia faccia il suo corso, perché mai Natoli dovrebbe dimettersi, come avrebbe richiesto, stando alle cronache, dal Quirinale il Presidente del Csm, Sergio Mattarella?

In un Paese normale, in cui il garantismo non sia il blasone del Marchese del Grillo, il fatto che la compiuta (e incontestata) violazione del segreto su di un procedimento da parte di un membro del Csm integri o meno il reato di rivelazione del segreto d’ufficio (articolo 326 del codice penale) è del tutto irrilevante ai fini del giudizio – il più severo – sulla sua fellonia istituzionale e incompatibilità con il ruolo ricoperto. Sia che il membro del Csm si chiami Piercamillo Davigo e sia arrivato lì a furor di popolo togato, come ex capo dell’Anm, sia che si chiami Rosanna Natoli e ci sia arrivata (e ci rimanga), perché così ha deciso, strappandola a un felice anonimato, la seconda carica dello Stato (contro la prima).

Nel caso dell’ex magistrato del pool, che esplose dopo che questi aveva lasciato Palazzo dei Marescialli, l’attività parallela di informatore sui dissidi nella Procura di Milano sul caso Amara e di dispensatore informale di verbali segreti gli ha fruttato una condanna in primo grado, confermata in appello (è ancora pendente il giudizio in Cassazione). Ma quello che il giudice di primo grado definì lo «smarrimento di una postura istituzionale» da parte di Davigo vale, a maggior ragione, per Natoli, a prescindere dal fatto che nel suo caso il tradimento del dovere (ammesso dall’interessata come «errore imperdonabile») sia tale da guadagnarle o meno una condanna come quella, non definitiva, ricevuta dal suo predecessore.

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