Vichy ItaliaPutin potrà sempre contare sui pacifisti brava gente, gli ucraini no

La salvezza di Kyjiv è inseparabile dal futuro dell’Europa, ma le posizioni ambigue dei partiti italiani, tanto a destra quanto a sinistra, dimostrano un’immatura assenza di responsabilità e fermezza

LaPresse

La guerra all’Ucraina non è solo l’alfa e l’omega dei problemi dell’Europa e dell’ordine politico occidentale. È anche un’infallibile cartina al tornasole della corruzione e del degrado morale delle democrazie nominalmente schierate dalla parte di Kyjiv contro il regime canaglia del Cremlino. La questione della libertà, che gli ucraini simboleggiano e, loro malgrado, incarnano con una sfrontata fierezza, nella vita come nella morte, è la misura di tutte le cose politiche che contano ed è tutt’una con la questione della verità sui destini di quel mondo, che chiamiamo Occidente.

I vari modi e alibi – pacifisti, isolazionisti o ruffianamente affaristi – per dissociare le sorti dell’Ucraina da quelle dell’ordine politico euro-atlantico non sono solo sconce, ma irrealistiche, perché, come noi europei dovremmo avere imparato a nostre spese, dopo qualunque Monaco non c’è un’alternativa tra la guerra e il disonore, ma solo tra l’essere Londra o l’essere Vichy.

In un’Europa disseminata di omini verdi di Putin e del nazionalismo russo, rivestiti dai panni degli agitatori del sovranismo domestico o del social-populismo protestatario, resistono ancora praticamente ovunque maggioranze politiche periclitanti, ma vaste e diffuse pro Ucraina, guidate da élite spesso tutt’altro che eroiche o inequivoche (si pensi a Olaf Scholz e a Emmanuel Macron), ma almeno consapevoli che la salvezza dell’Ucraina e il futuro dell’Europa sono due facce della stessa medaglia, esposte al rischio della medesima rovina. Non è un’Europa di Winston Churchill, insomma, ma neppure di aspiranti Philippe Pétain.

Però, a fare eccezione in questo scenario non sono più sole l’Ungheria e la Slovacchia dei due Vidkun Quisling ufficiali di Mosca. L’Italia politica tutta, come rappresentata al Parlamento europeo, senza sostanziali differenze tra la destra salvinian-meloniana e la sinistra campolarghista, nel primo voto della legislatura sulla risoluzione in sostegno dell’Ucraina è esplosa in un’orgia di distinguo e di doppiezze stupide e tartufesche, disegnando un arabesco di posizioni grottesche e addirittura esilaranti.

L’unica delegazione ad avere votato per intero il documento è stata quella di Forza Italia, mentre il suo capo, Antonio Tajani, spiegava che era solo un allineamento tecnico alla linea di voto del Partito popolare europeo, ma la posizione del partito rimaneva diversa da quella dei suoi eletti e uguale a quella dei partiti alleati. Chiaro, no?

E che dire della tempra atlantista dei cosiddetti riformisti del Partito democratico, culminata nell’astensione di ben due elette (Pina Picierno e Elisabetta Gualmini) su ventuno (gli altri e le altre tutti contro) sul punto più sensibile e qualificante della risoluzione relativo alla «eliminazione delle restrizioni all’uso dei sistemi di armi occidentali forniti all’Ucraina contro obiettivi militari sul territorio russo». Pochino, no?

È vero che poi il Pd, con una classica ricomposizione dorotea, in una ridda indecifrabile di segnali interni ed esterni, ha votato a favore della risoluzione completa, comprensiva della parte che avrebbe voluto bocciare. Ma siamo ben lontani dalla nettezza e dalla responsabilità del Labour di Keir Starmer, che non pensa di dovere mediare tra posizioni inconciliabili, ma ieri ha invitato direttamente il presidente ucraino Volodymyr Zelensky a una riunione del governo britannico a Downing Street (Elly Schlein avrebbe dovuto chiedere il permesso a Sandro Ruotolo).

E lasciamo perdere i pacifisti qualunquisti e insurrezionalisti, bigotti e Lgbtq+, anticapitalisti e antiglobalisti, magnificamente riassunti nelle convergenze parallele tra Ilaria Salis e Roberto Vannacci sulla linea di Viktor Orbán e delle varie genie di post-comuniste sulla piattaforma post-fascista di Jordan Bardella. Tutti vogliosi e convinti di dare una chance alla pace di Putin, tutti italiani brava gente.

L’unica ragione per cui l’Italia non è ancora passata ufficialmente dove già moralmente si trova – sulla posizione: bye bye Ucraina – è nella cattiva coscienza opportunistica della Presidente del Consiglio, che aspetta che a coprirle la fuga sia il golpista in chief, se e quando sarà rieletto alla Casa Bianca, illudendosi che un ceffo che chiede come un mafioso a Taiwan di pagargli la protezione sia invece generoso con la piccola fiammiferaia sovranista, se l’aiuterà a incendiare l’Ue.

In realtà, c’è un’altra ragione per cui l’Italia non ha ancora preso congedo dall’allineamento atlantista, ed è – diciamolo chiaramente v che non governa il Campo Largo, in cui la pregiudiziale pacifista rimane non solo insuperabile, ma di fatto indiscussa, come dimostrano i pellegrinaggi devozionali di tutto il cucuzzaro progressista agli happening dell’Anpi del post-cossuttinano Pagliarulo. 

Se Giorgia Meloni aspetta Trump, al Pd e ai suoi sedicenti riformisti non è bastato il quadriennio spettacolare del vecchio Biden e del giovane Antony Blinken, che hanno rimesso in ordine le coordinate morali dell’Occidente, per capire che l’orologio della storia non batte al tempo della mediocrità miserevole di Giuseppe Conte, di Angelo Bonelli e di Nicola Fratoianni. Che senso ha proclamare la necessità di una alternativa antifascista, se non si ha il coraggio di essere alternativi a un pacifismo anni Cinquanta Yankee go home, corrivo con il fenomeno più tipicamente fascista della politica contemporanea, cioè il putinismo? Alla prova dell’Ucraina, la politica italiana, senza vere distinzioni tra la destra e la sinistra, mostra il volto osceno dell’Europa di Vichy. Putin può stare tranquillo, l’Ucraina no.

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