Dopo l’endorsement di Joe Biden, la più importante dichiarazione a sostegno di Kamala Harris è quella arrivata con un video postato su Twitter alle 17:29 di ieri pomeriggio da Gretchen “Fight like hell” Whitmer, la governatrice del Michigan, secondo molti analisti politici la più formidabile tra i potenziali candidati democratici contro Donald Trump. Whitmer non solo sostiene Harris, ma sarà anche la co-presidente del suo comitato elettorale. Subito dopo è arrivata anche la dichiarazione di Nancy Pelosi, per sancire la chiusura della gara per la successione a Joe Biden, seguiranno quelle di Chuck Schumer, di Hakeem Jeffreys e di Barack Obama, ovvero le menti dietro la campagna di pressioni pubbliche e private per costringere il presidente in carica a rinunciare alla ricandidatura.
Da qui alla convention democratica di Chicago, 19-22 agosto, vedremo se Kamala (pronuncia “Commla”) riuscirà a ripresentarsi agli occhi degli elettori americani come quella che era prima degli anni della vicepresidenza: la senatrice che in Commissione Giustizia a Capitol Hill ha fatto vedere i sorci verdi ai trumpiani durante il Russiagate, ma anche l’ex Attorney General della California e procuratrice distrettuale di San Francisco in grado di poter fare campagna elettorale dicendo che Donald Trump non sarà certo il primo criminale che assicura alla giustizia.
Harris utilizzerà la carta della “cop”, della poliziotta contro il criminale Trump. Ieri, in Delaware, al primo intervento pubblico dopo la rinuncia di Biden, Kamala ha detto: «Sono stata procuratore distrettuale, ho frequentato i tribunali e mi sono occupata di criminali di vario genere: predatori che hanno abusato di donne; truffatori che hanno derubato i consumatori; imbroglioni che hanno infranto le regole a proprio vantaggio. Quindi credetemi quando vi dico che conosco i tipi alla Donald Trump».
Un’immagine battagliera e lontana da quella pallida della vicepresidente ininfluente cui il team Biden l’ha relegata fin dall’insediamento alla Casa Bianca nel 2021, per timore che un’esuberante e giovanile vicepresidente Harris potesse far venire anzitempo l’idea a qualcuno di cambiare cavallo alle elezioni di quest’anno, cosa che poi è realmente accaduta ma fuori tempo massimo e in condizioni drammatiche.
A centosei giorni dal voto del 5 novembre, la sfida di Kamala Harris contro Donald Trump è in salita molto ripida, perché nei cinque o sei stati dell’America bianca e rurale dove da sempre si decidono le elezioni presidenziali lei è un candidato debole, esattamente per le stesse ragioni per cui Hillary Clinton perse nel 2016 (donna e, a torto, etichettata come una radicale di sinistra) mentre invece, quattro anni dopo, il vecchio “Joe Biden from Scranton” riuscì a superare Trump.
Rispetto a Hillary, Kamala è anche afro-giamaicana e asiatica-americana, un altro doppio elemento che rianima le pulsioni razziste di una parte dell’America che certamente Trump non si farà sfuggire l’occasione di pettinare nel verso del pelo. È facile prevedere che Kamala sarà raccontata dai repubblicani come la candidata Dei, Diversity, Equity e Inclusion, l’incarnazione del radicalismo woke che sta rovinando la struttura sociale dell’America.
Kamala Harris non è riconoscibile in questa caricatura, tanto che a Vogue America qualche anno fa disse che quando qualcuno le chiede di parlare di questioni femminili: «Lo guardo, sorrido e dico che sono molto felice di parlargli di economia o di sicurezza nazionale».
Nell’epoca della post verità e della fake news sarà difficile controbattere alla narrazione stereotipata della donna nera e radicale, ma Kamala Harris è una predestinata che lavora da tempo per questo momento: cinquantanove anni, madre indiana e padre giamaicano, accademici separatisi quando lei aveva sette anni, prima asio-americana a candidarsi alla Casa Bianca, seconda donna di colore nella storia del Senato di Washington, prima vicepresidente donna degli Stati Uniti, certamente Kamala non lascerà nulla di intentato per diventare la prima commander in chief donna di Washington.
Ci aveva già provato alle primarie democratiche del 2020, quelle poi vinte da Biden, durante le quali ebbe la sfrontatezza di dire che avrebbe visto bene Biden come suo vice alla Casa Bianca. Allora, Harris aveva impostato il suo messaggio politico sulla stessa lunghezza di quello obamiano, fornendo soluzioni intelligenti a problemi complessi e raccontando l’edificante storia di riscatto sociale di una piccola bambina che faceva parte della seconda annata di studenti che finalmente uscivano dalla segregazione razziale ancora in vigore nelle scuole pubbliche della California: «E quella piccola bambina ero io», disse Kamala proprio rispondendo a Biden in un dibattito televisivo, e certamente glielo sentiremo ripetere da qui in avanti.
Così come la sentiremo raccontare i suoi trascorsi politici che sono molto diversi dall’etichetta radicale che le appiccicano i repubblicani. Harris non è una radicale, ma quando è al suo meglio non è nemmeno una politica senza coraggio, per esempio è stata decisiva nel processo, nato in California, che ha portato al riconoscimento giurisprudenziale del matrimonio omosessuale.
Alla seconda Convention nazionale di Obama, a Charleston nel 2012, da Attorney General, Kamala Harris era stata annunciata come la futura stella del partito indicata personalmente dal presidente, ma per eccessiva cautela lei sprecò quell’occasione: il discorso fu talmente guardingo e ponderato da risultare noioso ed essere dimenticato seduta stante. Obama l’aveva presentata come l’Attorney General di gran lunga più bella del paese, con l’intento di segnalare che la gran parte di quei posti solitamente è occupata da uomini bianchi, ma agli albori dell’epoca fessa che stiamo vivendo il commento fu giudicato sessista e Obama fu costretto a scusarsi.
In un’epoca normale, Kamala Harris sarebbe una candidata straordinaria, ma in tempi normali anche un comodino avrebbe la strada spianata contro un candidato come Trump che ha tentato di corrompere il sistema democratico americano, ha istigato l’assalto violento al Congresso durante un colpo di stato fallito, è stato giudicato colpevole di trentasei capi di imputazione, è stato riconosciuto come stupratore da una corte, ha subito due impeachment, amoreggia con i dittatori ed è nelle tasche dei russi, gli storici nemici degli Stati Uniti.
Se gli americani si rendessero conto del pericolo che corrono nel far tornare un golpista alla Casa Bianca non ci sarebbe partita, ma al momento questa consapevolezza non c’è: nonostante l’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021, il paese è ancora diviso a metà, una metà delle quali considera Trump un candidato normale.
In questa situazione, opporre all’autoritarismo trumpiano una candidata poco adatta a convincere gli elettori bianchi e arrabbiati degli stati rurali e della cintura della ruggine piegata dalla globalizzazione è un rischio altissimo per Kamala, per l’America e per tutti noi. Vedremo che cosa succederà nella nuova campagna elettorale, inedita anche per i tempi ristretti che ricordano le recenti elezioni in Francia e in Gran Bretagna più che i lunghi cicli americani. Saranno i prossimi cento giorni di Kamala, le reazioni di Trump e chissà quali altri sorprese a indicare se il cambio alla guida del ticket democratico è stato sufficiente a scongiurare l’apocalisse della democrazia in America.