C’è una cosa che accomuna il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano e il presidente del Senato Ignazio La Russa. Anzi due. Una è la tendenza a spararle grosse, l’altra è quella di peggiorare la situazione, dopo averle sparate, arrampicandosi sugli specchi per rimediare, spiegarsi, precisare: come dicono a Venezia,«el tacòn peso del buso». (Una bella maschia gara, comunque, bisogna riconoscerlo).
Dopo la bufera seguita al suo intervento durante la cerimonia del Ventaglio che si è svolta martedì in Senato, in una lettera alla Stampa La Russa ha tenuto a puntualizzare. Il tema era il pestaggio del giornalista Andrea Joly da parte di militanti di CasaPound, domenica sera a Torino. «Mai ho detto o pensato che Joly DOVEVA qualificarsi come giornalista», protesta La Russa, contestando il titolo in prima pagina del quotidiano (di cui la vittima dell’aggressione è dipendente). E a riprova riporta la parte finale del suo discorso: «Non sto giustificando niente, credo che siano [i militanti di CasaPound] estremamente colpevoli. Non credo però che il giornalista passasse lì per caso. Devo essere sincero. Non è una sua colpa, però sarebbe stato più bello se lo avesse detto: ero lì che volevo riprendere quella riunione e poi è successo…».
Vero, non ha detto «doveva», ha detto «sarebbe stato bello»; ma, parte le ovvie esigenze di sintesi nei titoli (che come avvocato non è tenuto a conoscere, ma come stagionato frequentatore dei giornali forse sì), il senso, insomma, quello è. Con in più una punta di sarcasmo. E c’è da immaginare che se il giornalista si fosse qualificato, forse per lui sarebbe finita peggio. Il problema però è un altro, e non è casuale che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nella cerimonia del Ventaglio che si è tenuta il giorno dopo al Quirinale (a ognuno il suo Ventaglio), abbia messo in guardia: «Ogni atto rivolto contro la libera informazione è un atto eversivo rivolto contro la Repubblica». Sottolineando che «i giornalisti si trovano a esercitare una funzione costituzionale che si collega all’articolo ventuno [«La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure», ndr] della nostra Carta fondamentale, con un ruolo democratico decisivo».
Da questo punto di vista, che il giornalista «passasse lì per caso» o fosse andato di proposito con l’idea di ricavarne un servizio, nulla cambia. In quella via di Torino, quella sera, stava accadendo qualcosa, e il lavoro di un giornalista è raccontare i fatti che hanno un qualche rilievo pubblico.
La Russa non ha capito, o ha finto di non capire, che il Capo dello Stato, nel suo discorso, parlava – anche e soprattutto – per lui e per quelli che la pensano come lui. «Funzione di giornalista del tutto legittima», «inaccettabile, odiosa aggressione», ribadisce infatti il presidente del Senato nella lettera al quotidiano torinese. Ok, lo aveva già detto martedì davanti alla stampa parlamentare: «assoluta e totale condanna», «tutta la mia solidarietà» e blablabla. Non è questo il punto. Così come è irrilevante l’obiezione – non di La Russa ma dei suoi immancabili zelatori – secondo la quale, visto che gli aggressori non sapevano di avere a che fare con un giornalista, non si può parlare di un atto contro la libera stampa.
Davvero non si capisce se ci sono o ci fanno (entrambe le cose, probabilmente). Perché la minaccia – insinuante, fintamente bonaria, implicitamente intimidatoria – alla libertà di stampa era contenuta nella parte del suo discorso che La Russa non riporta nella lettera al quotidiano (alla quale il direttore Andrea Malaguti elegantemente preferisce non replicare, confortato dalle parole del presidente della Repubblica).
La trascriviamo qui: «… assoluta e totale condanna, e ribadisco però…» (c’è sempre un però: quando danno un colpo al cerchio, la botte può star certa che non la passerà liscia) «… ribadisco però anche che ci vuole forse un modo più attento di fare le incursioni, legittime» (perbacco, grazie eh!) «da parte dei giornalisti». Per essere più chiaro, poco oltre: «Cioè non vorrei che entrasse troppo nell’uso quotidiano l’inserimento di metodologie che creano poi reazioni che non vogliamo mai avvengano».
Non vogliamo mai, certo: lo stile ricorda quello degli emissari del racket, quando offrono la loro «protezione» ai commercianti. O quello delle squadracce che nel Ventennio, prima di passare all’azione, mettevano in guardia gli oppositori. Siamo sempre lì: nomina sunt consequentia rerum, ma nel caso di Ignazio Benito La Russa si potrebbe dire il contrario, che res est consequentia nominis.
E comunque, anche senza avere quel nome… «L’aggressione di Torino è inaccettabile, tanto più che è stata vigliacca, tanti contro uno», concede il Fratello d’Italia Federico Mollicone, presidente della commissione Scienza, Ricerca e Editoria della Camera, in un’intervista con il Corriere della Sera. «Ma» (eccolo il «ma») «è anche vero che esiste un giornalismo provocatorio e provocante». Provocatorio e provocante. Basta così? No, non basta, perché, in riferimento alla famosa inchiesta di Fanpage sulla «Gioventù meloniana», «se ci si muove come agente provocatore per mesi e mesi e mesi in certi contesti, lo squilibrato di turno alla fine lo si trova pure», si preoccupa l’onorevole Mollicone.
I giornalisti sono avvertiti: facciano pure il loro mestiere, ma stiano attenti, ci sono situazioni da cui è meglio stare alla larga. Per il loro bene, s’intende. Se poi proprio se le vanno a cercare… Insomma non è un bavaglio all’informazione, ma un invito all’auto-bavaglio.