Prima ha intitolato il suo semestre di presidenza dell’Unione europea al principale nemico dell’Europa dopo Vladimir Putin, cioè Donald Trump, con quel grottesco slogan «Make Europe Great Again»; quindi ha avviato la sua personale missione diplomatica, non concordata e nemmeno comunicata ai vertici dell’Unione, andando a molestare il leader ucraino con una sostanziale proposta di resa, per poi correre a riferire da Putin a Mosca e chiudere il giro, già che c’era, con una visitina anche al suo principale alleato Xi Jinping a Pechino.
Eppure non sembra che le proteste e le minacce di ritorsione europee andranno oltre le consuete schermaglie che hanno accompagnato finora tutte le malefatte di Viktor Orbán, il presidente ungherese che ha smantellato lo stato di diritto in patria e trasformato gradualmente il suo paese in un regime autocratico, al servizio di tutti i nemici dell’Europa e dell’Occidente, con i soldi dell’Unione europea e la complicità di buona parte di quell’establishment politico di Bruxelles contro il quale si scaglia ogni giorno.
Orbán è l’equivalente del figlio di papà che gioca a fare la rivoluzione con i soldi dell’impresa di famiglia. Solo che la sua rivoluzione è la regressione verso la cleptocrazia putiniana, un orrendo miscuglio di nazionalismo, xenofobia e oscurantismo. Pensare che un simile personaggio, che la stampa russa mostra di considerare una specie di ambasciatore di Trump (cioè di Putin), sia anche il promotore del gruppo dei Patrioti nel parlamento di Strasburgo, con il Rassemblement National di Marine Le Pen e la Lega di Matteo Salvini (dei quali sono noti, non da oggi, i buoni rapporti con Mosca), dà la misura del degrado cui è giunta la politica europea, e anche italiana, nel momento più difficile e pericoloso nella storia dell’Unione.
E il fatto che l’ultima trincea contro simili manovre sia difesa da Giorgia Meloni, con tutte le sue evidenti riserve, esitazioni e ambiguità (tanto più preoccupanti in vista di un possibile ritorno di Trump alla Casa Bianca) certo non invita all’ottimismo. Neanche per quanto riguarda più strettamente l’Italia, che da un simile posizionamento della sua presidente del Consiglio, almeno finora, non pare proprio avere ottenuto quella centralità che la stampa le aveva generosamente attribuito, e nemmeno quella benevolenza di cui, data anche la situazione dei conti pubblici, avremo sempre maggiore bisogno.
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