L’overtourism è un oggettivo tema da affrontare, in un mondo in cui tutto è spettacolarizzato e una meta, da piccola gemma da preservare, diventa virale prima sui social e poi viene invasa da turisti alla ricerca dello scatto perfetto.
È successo anni fa con la Val Verzasca, letteralmente travolta dagli instagrammatori alla ricerca delle Maldive a due passi da Milano, succede quotidianamente con Venezia, Firenze e Roma. Succede con Pisa, ridotta a un luogo da fotografia, praticamente invivibile per gli abitanti e sconosciuta e deserta fuori dalla piazza dei Miracoli intasata di gente con il braccio alzato a fingere di reggere la torre pendente.
Ma l’overtourism non causa solo invasione di luoghi con grande disagio dei residenti. Causa anche spopolamento, con le case ridotte a dormitori per turisti da Airbnb, causa riassetto della proposta ristorativa, “mangifici” al posto dei ristoranti, con menu sempre più turistici e meno curati, fatti apposta per un consumo “mordi e fuggi”. Causa una trasformazione dei centri storici in luoghi tutti identici, tutti con le stesse catene di negozi, che individuano in queste città ad alto tasso di interesse dei punti cardine per il loro business, di fatto rendendo impossibile alle piccole attività mantenere la loro storia nei loro territori.
E l’overtourism può essere anche responsabile di cambiamenti strutturali dei luoghi che invade.
L’Asahi Shimbun ci racconta di come il Giappone abbia deciso di modificare le regole per la salita al Monte Fuji, imponendo nuove tariffe per i sentieri e limitando il numero di escursionisti per contenere il sovraffollamento. Gli scalatori devono pagare duemila yen (dodici dollari) e il loro numero sarà limitato a quattromila al giorno, dopo che l’anno scorso sono giunte lamentele per i rifiuti, l’inquinamento e i sentieri pericolosamente affollati. È stato anche installato un cancello a poco più di metà strada dalla vetta di 3.776 metri simbolo del Giappone e calamita per i turisti. La caduta dello yen ai minimi da trentotto anni ha reso il Giappone un affare irresistibile per i visitatori stranieri, che spendono molto ma mettono anche a dura prova le strutture per i viaggi e l’ospitalità, per non parlare della pazienza dei locali. Le orde di turisti sono diventate un pericolo per il traffico, per esempio, in un punto panoramico con vista speciale sul Monte, costringendo il comune a porre una barriera di rete nera per ostacolare la vista, che era diventata virale online.
«Questa non è Disneyland», ha detto Kula, un visitatore di Boston al giornale: «Avere una sorta di sistema di controllo degli accessi per limitare il potenziale caos è positivo».
Altrove i turisti sono responsabili anche di altro, e proprio a causa di ciò che mangiano, come ci racconta Il Post: sull’isola di Jeju, in Corea del Sud, l’abitudine degli escursionisti di versare in natura gli avanzi del pranzo sta rendendo i prati e i corsi d’acqua troppo salati. Questa abitudine è problematica perché il brodo dei noodles contiene molto sale, che può finire nei corsi d’acqua e contaminarli, alterando l’ecosistema per insetti e anfibi, ma può causare problemi anche alle specie vegetali più delicate che si trovano all’interno del parco naturale, e attirare animali come corvi, tassi e donnole che creerebbero un ulteriore squilibrio all’ecosistema. Ci sono dei bidoni per gettare il brodo avanzato, ma spesso i turisti continuano a gettare gli avanzi per terra, compromettendo il terreno e le acque.
Un ente internazionale, il Global Sustainable Tourism Council, sta provando a lavorare alla promozione di pratiche turistiche responsabili e sostenibili a livello globale e sta tentando di cambiare questa situazione, attraverso una gestione responsabile delle destinazioni, attraverso la promozione di trasporti pubblici eco-compatibili, la diminuzione dell’utilizzo di plastica e la sensibilizzazione dei turisti verso comportamenti responsabili. Ma l’organizzazione promuove anche una gestione responsabile delle risorse naturali, con attività turistiche a basso impatto ambientale come il trekking, il ciclismo e l’enogastronomia, o sostenendo politiche per ridurre l’uso di energia e acqua nelle strutture ricettive. O addirittura ponendosi l’obiettivo di ripristinare e migliorare gli ecosistemi naturali e le comunità locali, anche riducendo al minimo gli sprechi e massimizzando il riutilizzo delle risorse.
È una certificazione privata, che richiede uno sforzo da parte delle aziende turistiche, ma è forse il primo passo indispensabile per cambiare sensibilmente le cose, avendo l’obiettivo a lungo termine di non rendere “Gardaland” o peggio ancora le mete turistiche più gettonate, snaturandole del tutto e – di fatto – cambiandone le sorti sul lungo periodo. Perché se il turismo è una risorsa preziosa, l’overtourism è il modo certo per distruggere la vocazione turistica di un luogo, impedendo che sia praticabile e appetibile nel futuro.