Mal di SardegnaL’irresistibile leggerezza del Maestrale

La Gallura è una terra magica e ancestrale, che da anni è diventata meta del turismo di lusso e internazionale, ma che allo stesso tempo custodisce realtà locali solide e dalla spinta innovativa

Si dice che la Sardegna faccia perdere la testa, che sia un po’ come l’Africa: una volta che l’hai vista, ti rimane appicciata addosso come la salsedine e ne hai bisogno per sopravvivere. Accade però solo a quelli più fortunati e curiosi che riescono a intravederne l’anima vera, al di là del suo fascino estivo e delle spiagge che sembrano ricordare cartoline di mondi lontani. «Questo è il mio porto, il mio punto d’arrivo. Qui voglio vivere, diventare vecchio». È successo a Fabrizio De André, ed è successo tanti anni fa anche ad Andres Fiore, figura geniale e creativa, che alla fine degli anni Sessanta creò uno dei più longevi e affascinanti club d’Italia: il Ritual. 

Era un’epoca diversa, frizzante e di estremo cambiamento per l’Isola, rivoluzionaria. In quel periodo stava nascendo forse il caso più emblematico di creazione dal nulla di una destinazione turistica, la Costa Smeralda, destinata a cambiare volto a una parte della Sardegna e a far rimbombare il suo nome tra le stanze e i pensieri delle persone più influenti del pianeta. Quando parliamo di caso, lo facciamo a ragion veduta, in quanto la nascita di questo angolo di mondo, desiderato, invidiato e anche criticato, fu davvero opera di un destino particolare. Nel 1958 in Sardegna, così come in altri luoghi, si stava combattendo la battaglia contro la malaria e l’Isola fu scelta, come accade sempre anche oggi, come area di sperimentazione, in questo caso per testare il Ddt. A seguire l’operazione era John Duncan Miller, funzionario della Banca Mondiale, mandato in Sardegna per verificare l’efficacia dell’insetticida. Rimase talmente abbagliato dalla bellezza delle sue coste da chiamare a raccolta gli amici per condividerne il fascino. Tra questi anche il giovane principe Karim Aga Khan, che nel 1962 costituì il “Consorzio della Costa Smeralda”, andando anche a investire in tutta una serie di infrastrutture, all’epoca completamente inesistenti. Il resto è storia e la Costa Smeralda ancora oggi rimane quel luogo che tutti, almeno una volta nella vita, vogliono visitare, non fosse altro per ammirare e invidiare da lontano il lusso che in pochi possono permettersi. In Costa Smeralda sono passati davvero tutti, e forse si può dire che, in alcuni casi, le sorti del mondo sono state decise da queste parti. Si dice che la politica si fa a tavola, qui a bordo di faraonici yacht.  

Ecco, fu in quegli anni che Andres Fiore decise di comprare una collina da quelle parti, nella campagna gallurese di Baja Sardinia. Fu un acquisto quasi a scatola chiusa, senza mai aver visto neppure un centimetro di quella terra, fatto di pancia e con quell’istinto che solo chi cova l’arte e la creatività nel cuore possiede. Fiore, parmense con un animo nomade, per mestiere faceva l’architetto e si occupava di gioielli e pietre preziose. Quello che è riuscito a creare in quello che viene comunemente chiamato “Il castello” è qualcosa di davvero incredibile. In un video, in cui racconta la nascita del Ritual, spiega il meccanismo che lo aveva spinto a comprare un pezzo di terra, di alberi, granito e grotte. «La grotta è dentro i nostri cromosomi, un tempo rappresentava un rifugio. È come ritornare in una specie di ventre materno, il ventre della madre terra. Dà sicurezza, piacevolezza. Io ho trovato queste cavità e ho provato un senso di gioia immensa, come se avessi scoperto una cattedrale naturale. L’intervento che ho fatto l’ho fatto cercando di non perdere di vista il preesistente».

Ed è vero, tutto al Ritual sembra essere stato messo lì dalla natura e non dalla mano dell’uomo. Materiali poveri plasmati ad arte, il granito che prende forma, gli alberi incastonati in scenografie perfette. A guardarlo con occhio disattento si direbbe quasi un luogo creato ad hoc, pezzo dopo pezzo: a un’analisi attenta ci si rende conto di un lavoro fatto per non snaturalizzare nulla di un posto nato per essere bello nella sua essenza originaria. Fiore ha cercato di rendere onore, in qualche modo, alla civiltà sarda e alla sua antichissima storia, fatta di riti, di simboli arcaici e di un rapporto con la terra fortissimo, molto più che altrove. Il risultato è stato uno stile eclettico e vivo, che ricorda a tratti la firma di Gaudì.

Il 6 agosto il Ritual compirà cinquantaquattro anni. Una storia molto lunga per una discoteca, che negli anni non ha mai perso neppure un momento il suo smalto, in un periodo in cui in Sardegna le discoteche e i locali da ballo e da divertimento conoscono invece una crisi continua. Il merito forse è proprio dovuto a quel “mal di Sardegna” a cui facevamo accenno. La famiglia Fiore ne è stata affetta subito e l’Isola è entrata di diritto nel suo patrimonio genetico. Dopo la morte di Andres, è stata Francesca, sua figlia, a prendere in mano le redini del locale: «Ho affrontato entrambe le sfide con il mio pragmatismo, istinto e una giusta dose di prudenza, cercando sempre l’unione, il rispetto, il dialogo e ricreando il senso di famiglia anche con i collaboratori e i clienti. In questi vent’anni sono cresciuta con il locale, con i miei collaboratori, con i miei figli».

Quando Francesca parla di sfide al plurale si riferisce al suo essere imprenditrice, oltretutto di una realtà consolidata e quindi difficile da mandare avanti mantenendola comunque allo stesso livello, e al suo ruolo di mamma, giovanissima, di due figli, di cui uno, Samuele, che oggi ha deciso di lavorare nel locale sardo. Lei, che vive in Sardegna per la maggior parte del tempo, anche quando si svuota e ritorna a essere solitaria e silenziosa, sembra aver preso le caratteristiche del Ritual e di quel suo disegno originale voluto fortemente dal padre: a guardarla viene davvero in mente una dea legata al culto della terra, solare, morbida e accogliente. Una padrona di casa, che ha scelto l’Isola come sua seconda casa e ha voluto mettere mano al progetto paterno, arricchendolo con un ristorante, posizionato laddove il padre aveva creato invece un giardino pensile quasi inaccessibile. 

Il Ritual infatti è un gioco a più livelli, dove scale ripide e sparpagliate lungo gli ambienti connettono spazi diversi. C’è la parte più storica, quella della discoteca in senso stretto, con il Garden, un giardino all’aperto intrecciato di profumi mediterranei e il Temple, una grotta di granito e ferro, che è l’anima originaria del Ritual. C’è il mixology club, ispirato alle contaminazioni culturali e al viaggio, che vuole rappresentare i cinquant’anni di vita del locale. E ci sono le Terrazze, il ristorante nato qualche anno fa proprio da un’idea di Francesca e realizzato grazie anche a due dei suoi collaboratori storici: Marco Poltronieri, general manager e Tiziano Rossi, direttore del ristorante. 

La proposta gastronomica è inserita qui quasi a voler suggellare un patto stretto tra il Ritual e il territorio. Non ci sono colpi di testa, il voler stupire a tutti i costi, non esistono sbavature stilistiche: c’è l’anima sarda che si fonde con il resto del Mediterraneo, unita con maestria da un giovane chef ligure, Alessandro Cabona. E allora troviamo l’orata che trova un suo nuovo significato accostata al mango, ai finocchi e al peperoncino candito o la tempura di gamberi, deliziosa con il tartufo nero estivo e la maionese al dragoncello. I primi piatti hanno il sapore del mare. Come la calamarata del pastificio Mancini che diventa quasi una zuppa di frutti di mare e di piccola pesca: il grano e la terra che incontrano l’acqua e il sale. «È un piatto della tradizione rivisitato. L’idea è di mangiare una classica zuppa di pesce, già pulita. C’è la salsa della zuppa, setosa, passata al colino, la pasta saltata in bianco con crostacei e molluschi locali, poi adagiata sulla salsa al pomodoro. Tutto preparato con solo prodotto locale sardo. È un vero comfort food, in grado di risvegliare emozioni, ricordi, risvegliando il bambino che è dentro di noi» – ci spiega lo chef. 

Anche la carta dei vini trova il loro giusto posto in questo luogo, che è stato, giustamente, definito, un ristorante sospeso tra granito e cielo (questa è la sensazione che rimanda appena varcata la soglia).

Interessanti i marchi internazionali. Tra tutti spicca Moët & Chandon, che al Ritual viene proposto nella veste del “Tale of Lights”, un trio di Grand Vintages, che include Grand Vintage 2015, Grand Vintage Collection 2006 e Grand Vintage Collection 1999 e vuole essere un racconto del passare del tempo, rappresentato da questi tre champagne, ognuno con una maturazione temporale differente. 

In carta anche etichette locali, di luoghi a pochi chilometri di distanza, che sanno di mineralità e vermentino, come le Cantine Surrau, una realtà relativamente giovane (i primi vigneti furono impiantati nel 2001), che però ha saputo costruire in pochi anni un progetto dove la cultura sarda tocca diverse dimensioni. Non è solo il vino a essere messo al centro della cantina, ma anche un’idea di territorio che abbraccia l’arte e l’artigianato. Varcando le soglie della tenuta, infatti, si percepisce quella ospitalità isolana fatta di bellezza e piccoli dettagli. Tino Demuro, il suo creatore, ha dato all’azienda un’identità molto forte, che vuole essere esso stesso luogo di cultura e polo di accoglienza per gli oltre venqiduemila visitatori, che ogni anno arrivano per ammirare la struttura di design, le opere d’arte presenti e dedicarsi alle degustazioni, a volte accompagnate dalle proposte gastronomiche create dallo chef Roberto Erbì. 

Settanta ettari dislocati in sette diversi appezzamenti ad Arzachena e abbracciati dal maestrale e dalla salsedine, sono messi all’opera con attrezzature innovative e tecnologiche. Qui il Vermentino gioca un ruolo da protagonista: e non potrebbe essere diversamente per un vitigno che rappresenta, forse più di tutti, il simbolo della Sardegna vitivinicola. Si tratta anche dell’unica DOCG sarda, quella del Vermentino di Gallura, che grazie alle rocce di granito, al vento e a una macchia mediterranea particolare, regala vini immediatamente riconoscibili e identitari: attenzione infatti a non confonderli con il Vermentino di Sardegna, meno strutturato e sapido del cugino gallurese. 

Tra le seicentomila bottiglie prodotte all’anno da Surrau, trovano posto quindi i Vermentini, interpretati sia in modo classico, come nel caso del Branu e Sciala o anche con vendemmie tardive. Ma non solo: Surrau infatti ha dato una nuova visione di altri vitigni autoctoni dell’Isola, come il Cannonau, da cui si ricava un piacevolissimo e sorprendente Blanc de Noir Metodo classico, il Bovale sardo, qui conosciuto come Muristeddu, e anche un vitigno quasi sconosciuto come il Caricagiola, trasformato da Surrau in Giola, un sapido e allegro rosato, perfetto da gustare in semplicità, magari nelle estati in spiaggia. 

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