Il picco è alle spalle?Trump ora dovrà fare una campagna elettorale diversa

Il candidato del Partito Repubblicano ha basato tutta la sua strategia sul denigrare l’età avanzata di Biden, cercando di apparire come il male minore. Ora però dovrà cambiare la narrazione

LaPresse

Donald Trump ha condotto finora la campagna elettorale perfetta per un pessimo ex presidente degli Stati Uniti odiato dalla metà del paese che ha tentato un golpe e compiuto decine (se non centinaia) di reati: presentarsi come il male minore. Tuttavia, fondare la propria strategia elettorale sul declino cognitivo di un avversario molto anziano si rivela una scelta catastrofica se si è l’unico molto anziano in declino cognitivo ancora in corsa. In teoria Trump sta vivendo il suo momento politico migliore: l’iconica foto con il pugno al cielo dopo l’attentato in Pennsylvania ha fomentato il suo elettorato e riabilitato (parzialmente) agli occhi dei detrattori, spazzando via dal dibattito pubblico l’ipotesi di estrometterlo dalla campagna elettorale. Il suo sfidante, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden si è dimesso a poco meno di quattro mesi dalle elezioni, e il Partito democratico non ha ancora confermato chi lo sostituirà. 

Ma se fosse proprio questo il problema? E se Trump avesse già raggiunto il suo picco politico? Riuscirà a mantenere alta l’attenzione mediatica e il consenso del suo elettorato per altre quindici settimane? La domanda tormenta gli strateghi del candidato Repubblicano, Susie Wiles e Chris LaCivita che in un colloquio con il giornalista dell’Atlantic Tim Alberta rivelano di temere la potente macchina elettorale del Partito democratico, capace di mobilitare una larga fetta della popolazione americana che vota solo ogni quattro anni, raccogliendo ingenti finanziamenti. Non a caso a sole sette ore dopo l’annuncio di Biden la piattaforma di raccolta fondi democratica ActBlue ha raccolto 46,7 milioni di dollari. Secondo Wiles e LaCivita, la candidatura di uno stanco e anziano Joe Biden stava ostacolando il potenziale del partito Democratico, impedendogli di sfruttare appieno la sua solita superiorità elettorale.

«I Democratici potevano solo guardare, impotenti, mentre il Presidente negava alla giovane panchina del partito e alla sua macchina organizzativa la possibilità di cambiare la narrazione», si legge sull’Atlantic. Poi però «la campagna di Trump è passata dall’ottimismo sulle carenze di Biden al timore della sua estromissione, fino allo stupore per l’improvvisa lettera di Biden che ha fatto ciò che i Repubblicani pensavano non avrebbe mai fatto. 

Tradotto: Trump finora ha goduto dell’intensa campagna mediatica sul declino cognitivo di Biden che ha trasformato il duello in un gioco di sopravvivenza in cui «ciascun candidato doveva convincere gli elettori di essere meno inadatto rispetto al suo avversario». E il dibattito del 27 giugno ha dimostrato che Trump, il candidato più anziano nella storia degli Stati Uniti, ma di tre anni più giovane di Biden, era ancora prestante di fronte alle telecamere. 

Trump e il suo team hanno costruito la loro strategia attorno all’idea che Joe Biden sarebbe stato il loro avversario fino alla fine. «Le campagne pubblicitarie, il microtargeting, il coinvolgimento sui social media e persino la scelta di J.D. Vance come vice presidente erano tutti ottimizzati per contrastare Biden e per «polarizzare ancora di più il proprio elettorato che persuadere gli elettori in bilico». Ora devono ricominciare da zero.

La campagna elettorale cambierà per forza leit motiv. Qualsiasi candidato sarà scelto nella convention del Partito democratico a Chicago, che sia la vice presidente Kamala Harris o un outsider, chiunque ricomincerà a parlare dei processi di Trump, del tentato colpo di Stato del 6 gennaio 2021 e di tutti gli altri reati per cui Trump sta subendo dei processi. E al candidato del Partito Repubblicano non basterà dimostrare di star bene fisicamente e di avere la battuta pronta.

A preoccupare i Repubblicani sono proprio i sondaggi che finora hanno sempre dato in vantaggio Trump su Biden (l’ultimo quarantasette per cento contro quarantaquattro). Secondo l’Atlantic, quel vantaggio sarebbe il risultato della disillusione di due segmenti di elettorato che tipicamente votano a maggioranza il Partito democratico: la comunità afroamericana e i latinos

Nell’ultimo comizio elettorale in Michigan, Trump ha provato a fare ciò che gli riesce meglio: trovare un nomignolo al suo avversario, cercando di intercettare il pensiero dell’americano medio con categorie pre-politiche denigranti: basso, corrotto, antipatico etc. E nel caso di Kamala Harris, Trump ha puntato sulla sua risata altisonante e alcune volte sguaiata: «Io la chiamo Laughing Kamala. Avete visto come ride? È pazza». Una narrazione su cui ha puntato fin da subito anche il canale conservatore Fox News trasmettendo una compilation delle risate di Harris. 

Se Harris sarà la candidata del Partito democratico, Trump potrà attaccarla per la sua pessima gestione del confine meridionale all’inizio della sua vicepresidenza, ma questa strategia potrebbe non funzionare nel lungo periodo. Addossare ad Harris le presunte colpe dell’amministrazione Biden funzionerebbe se questi quattro anni l’economia americana fosse davvero peggiorata, ma non è così. Anzi, dopo la pandemia si è ripresa più velocemente rispetto al resto del mondo grazie agli ingenti investimenti pianificati dalla Casa Bianca. In effetti il basso gradimento verso Biden non era tanto legato ai risultati del suo mandato, quando alla percezione di un irreversibile declino cognitivo dovuto all’età. 

La cinquantanovenne Harris inoltre è stata per sei anni Procuratrice generale della California e avrebbe una ottima carta retorica da giocare durante i futuri dibattiti televisivi contro Trump, ricordando al candidato repubblicano tutti i reati per cui è stato condannato o per i quali è ancora indagato.

Tutto questo non vuol dire che il candidato del Partito democratico vincerà sicuramente, quanto piuttosto che finora per Trump è stata una passeggiata. E che il suo picco potrebbe essere ormai alle spalle. Le elezioni presidenziali vivono anche di novità, sorprese, dettagli nel dibattito e personalità dei candidati. Finora i Democratici hanno rincorso l’agenda mediatica; negli ultimi cento giorni della campagna elettorale hanno l’occasione di cambiare la narrazione, soprattutto negli Stati ancora in equilibrio del Midwest i cui elettori potrebbero essere influenzati dalla scelta del candidato vicepresidente, o addirittura presidente. Non a caso si fanno i nomi del governatore della Pennsylvania Josh Shapiro o del senatore dell’Arizona Mark Kelly.

Trump è davanti a un bivio: continuare a polarizzare l’elettorato, andando all’attacco di Harris (o di qualsiasi altro sfidante) con i soliti metodi estremisti e populisti, perdendo così la possibilità di conquistare il voto degli indecisi; oppure provare ad apparire moderato, presidenziale e cercare così di mantenere quell’aura di umanità concessagli dall’esser sopravvissuto per miracolo all’attentato in Pennsylvania, ma con il rischio di cedere la narrazione ai Democratici che sfrutteranno l’effetto novità. 

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